O.C.G.S.

Oratorio Centro Giovanile Salesiano

L’Oratorio non risulta soltanto un punto di riferimento importante all’interno dell’esperienza del Santo e della sua grande Famiglia: è stata un’opera che, per il suo vitale innerva­mento nella realtà ecclesiale e sociale torinese (poi anche na­zionale, europea e mondiale)… ha inciso in modo significativo sui processi storici, sulla pras­si pastorale, sulla mentalità e la cultura popolare. In partico­lare l’Oratorio di Don Bosco è…

L’Oratorio festivo è ritenuto da Don Bosco l’esperienza pri­mordiale e carismatica, nucleo ispiratore e radice insopprimibile di tutte le realizzazioni successive; riferimento obbligatorio per le istituzioni religiose e educative da lui avviate.

Ma l’Oratorio non risulta soltanto un punto di riferimento importante all’interno dell’esperienza del Santo e della sua grande Famiglia: è stata un’opera che, per il suo vitale innerva­mento nella realtà ecclesiale e sociale torinese (poi anche na­zionale, europea e mondiale), come e insieme ad altre iniziative, ha inciso in modo significativo sui processi storici, sulla pras­si pastorale, sulla mentalità e la cultura popolare. In partico­lare l’Oratorio di Don Bosco è legato indiscutibilmente alla sto­ria sociale e religiosa della nostra città.

Gli spunti che ci vengono dal sacerdote torinese, dalle sue proposte di soluzione agli inediti problemi educativi, pastorali e sociali posti dalla gioventù povera e abbandonata del suo tempo sono fortemente stimolanti per chi deve affrontare, pur in un al­tro contesto storico e culturale, sfide analoghe e diversissime.

La nostra rievocazione intende unicamente offrire le grandi linee del costruirsi ed evolversi dell’ esperienza oratoriana di Don Bosco e focalizzare alcuni aspetti qualificanti del suo pro­getto, senza la minima pretesa di esaurire un argomento sul quale si sono cimentati storici, pedagogisti e pastoralisti.

1. ORIGINI E SVILUPPO DELL’ORATORIO DI DON BOSCO

1.1. Trasformazioni demografiche e problema giovanile a Torino

1.1.1.  L’epoca dell’arrivo di Don Bosco a Torino. Don Giovanni Bosco (1815-1888) approdò a Torino nel novembre 1841, all’età di venti­sei anni, ordinato sacerdote da cinque mesi. La scelta dell’inse­rimento nel Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi, per una migliore qualificazione pastorale, era dovuta certamente all’amicizia con il compaesano Don Giuseppe Cafasso, direttore spirituale e formatore di sacerdoti, acuto precorritore delle inedite problematiche pastorali nelle quali si sarebbero imbattu­ti, in tempi prossimi, i giovani ecclesiastici. Si può anche sup­porre che la sua venuta a Torino sia stata manifestazione di una tendenza crescente di polarizzazione urbana da parte di gruppi disparati, anche di preti, in tempi nei quali la pressione demo­grafica nel mondo contadino, la migliore distribuzione di clero nei paesi e sul territorio, e una rinnovata coscienza sociale, unita a reali problemi di sussistenza, determinavano presso le classi rurali e povere spinte ad emergere e maggiore mobilità geografica ed economica.

Nella capitale si stava verificando una promettente fioritu­ra di iniziative imprenditoriali che uscivano dagli schemi delle vecchie strutture economiche e mettevano le basi di un rinnovato sviluppo, programmato e guidato da gruppi dirigenziali emergenti come quello che si sarebbe affermato intorno al conte di Cavour.

Nel decennio 1838-1848 la città di Torino subisce un aumento demografico di 20.000 unità; cifra considerevole se rapportata al numero totale di residenti (136.849 abitanti nel 1848). Negli an­ni successivi l’incremento sarà maggiore.

Le periferie di Borgo Dora, Vanchiglia e Porta Nuova assi­stono ad una prima ondata di espansione dell’edilizia, civile e manifatturiera, e all’insediamento numeroso e disordinato di fa­miglie (di artigiani, operai, manovali, carrettieri, lavandaie, piccoli commercianti, giornalieri, soprattutto manodopera non qualificata), sradicate da contesti geografici e culturali di origine diversa e suscettibili di lento o scarso inserimento nel tessuto civile ed ecclesiastico. Precarietà economica, ignoranza e miseria morale si ripercossero dolorosamente sulla vita sociale e religiosa della città, con espressioni di devianza e pericolo­sità sociale, di abbandono della pratica religiosa, di incuria educativa da parte di genitori assillati dalla preoccupazione per la sopravvivenza.

Di fronte ai tanti problemi, per i quali le strutture citta­dine e diocesane tradizionali, prese alla sprovvista, si sentiva­no impotenti, si tentarono qua e là, privatamente, risposte di pronto intervento a carattere caritativo-assistenziale, episodi­che e parziali. Nel frattempo, a vari livelli e in ristrette cer­chie di persone più sensibili, si incominciava a dibattere, pun­tando l’attenzione sull’educazione e sull’istruzione popolare co­me vie privilegiate di soluzione.

Negli strati più giovani della popolazione le nefaste conse­guenze apparivano con maggiore evidenza e drammaticità, essendo le fasce più consistenti numericamente; le statistiche, infatti, danno, per gli anni Quaranta e Cinquanta, una percentuale ondeg­giante tra il 42% e il 40% di individui inferiori ai 20 anni. Tra i ceti popolari e infimi la miseria obbligava i genitori all’in­serimento precoce dei bambini nel mondo del lavoro, in condizioni spesso disumane, nocive per lo sviluppo fisico e morale, di pale­se sfruttamento economico. Veniva così trascurata ogni forma ele­mentare di istruzione culturale, civile e religiosa.

Ad aggravare il quadro sociale si aggiungeva una categoria di giovani (anche fanciulli) totalmente abbandonata, soggetta a più alto rischio, di cui le statistiche ufficiali, basate sul censimento della popolazione residente, non offrono elementi per una corretta valutazione numerica. Si trattava del flusso stagio­nale di manovalanza giovanile che raggiunse punte massime nel quindicennio 1840-1855. Fonti e autori del tempo parlano di ‘più migliaia’.

Quest’ultimo fenomeno preoccupava maggiormente per i perico­li morali e sociali di cui potevano essere vittime ragazzi privi di qualsiasi tutela e controllo. Alla domenica e nei giorni fe­stivi quella multiforme massa giovanile invadeva strade, piazze e prati della periferia, offrendo agli occhi della popolazione un impressionante quadro di miseria, di ignoranza e di violenza.

1.1.2.  La percezione della situazione da parte di Don Bosco. I giova­ni preti del Convitto Ecclesiastico venivano a contatto col pro­blema giovanile nei suoi aspetti più drammatici quando, per il ministero del catechismo e delle confessioni, erano inviati dal Guala e dal Cafasso nelle carceri cittadine, pullulanti di giova­ni e di adolescenti, in conseguenza della politica prevalentemen­te repressiva con cui si affrontava la devianza e l’emarginazione.

Don Bosco, che appena giunto a Torino, si era visto circon­dare da ‘una schiera di giovanetti, che mi seguivano pei viali, per le piazze e nella stessa sacristia della chiesa dell’Istituto’,ne rimase sconvolto e si interrogò sul da far­si. Il contatto – sempre stimolato e favorito dai due direttori del Convitto – con istituzioni caritative tradizionali e nuove, come quelle dellaRegia Opera della Mendicità Istruita e gli istituti della marchesa Barolo, potè avere funzione di stimolo sull’animo del giovane sacerdote castelnovese, assommandosi alle esperienze giovanili di animazione catechistica, culturale e ri­creativa, avvenute però in contesti ben diversi.

Molto di più, sul piano operativo, dovette contare l’amici­zia e l’intesa con giovani sacerdoti, attenti agli stessi fenome­ni e desiderosi di impegno operativo, come si potrà constatare negli anni successivi.  Fra tutti risultò incoraggiante l’espe­rienza appena avviata da Don Giovanni Cocchi (1813-1895) nella parrocchia dell’Annunziata, in un apposito locale ‘ove ricoverava tutti i ragazzi che nei giorni festivi intervenivano ai catechi­smi […], coadiuvato da alcuni giovani ecclesiastici’. L’ini­ziativa, che avrebbe preso presto il nome di Oratorio dell’Angelo Custode in Vanchiglia, aveva lo scopo di ‘impedire il contatto con i cattivi compagni, e di inspirare in quei teneri cuori l’a­more alla virtù, prodigando loro avvisi, ed ammonizioni salutari […] con dolci modi e affettuosa carità’: obiettivi congenia­li con la mentalità, l’indole e la formazione di Don Bosco.

L’incontro casuale con Bartolomeo Garelli nella sacrestia di S. Francesco gli aprì presto una possibilità di limitata azione proprio con la categoria dei garzoni stagionali, più miseri dei ragazzi di borgo Vanchiglia perché senza famiglia e completamente sganciati da ogni appartenenza parrocchiale.

La situazione di giovani soli, poveri, sbandati, carcerati, le cause del loro progressivo abbrutimento, le soluzioni per il recupero e la prevenzione furono argomenti riflessi e dibattuti nella cerchia dei sacerdoti gravitanti attorno al Cafasso e al Cocchi. Scrisse Don Bosco nel 1862: ‘L’idea degli Oratori nacque dalla frequenza delle carceri di questa città. In questi luoghi di miseria spirituale e temporale trovavansi molti giovanetti sull’età fiorente, di ingegno svegliato, di cuore buono, capaci di formare la consolazione delle famiglie e l’onore della patria; e pure erano colà rinchiusi, avviliti, fatti l’obbrobrio della società. Ponderando attentamente le cagioni di quella sventura si poté conoscere che per lo più costoro erano infelici piuttosto per mancanza di educazione che per malvagità. Si notò inoltre che di mano in mano facevasi loro sentire la dignità dell’uomo, che è ragionevole e deve procacciarsi il pane della vita con oneste fa­tiche e non col ladroneccio; appena insomma facevasi risuonare il principio morale e religioso alla loro mente, provavano in cuore un piacere di cui non sapevansi dare ragione, ma che loro faceva desiderare di essere più buoni. Di fatto molti cangiavano condot­ta nel carcere stesso, altri usciti vivevano in modo da non do­verci più essere tradotti.

Allora si confermò col fatto che questi giovanetti erano di­venuti infelici per difetto d’istruzione morale e religiosa, e che questi due mezzi educativi erano quelli che potevano effica­cemente cooperare a conservare buoni quando lo fossero ancora e di ridurre a far senno i discoli quando fossero usciti da que’ luoghi di punizione’.

Si trattava di una percezione di carattere prevalentemente pastorale e educativo, non tale, però, da sottovalutare elementi legati alla complessità sociale nella quale i giovani si trovava­no innegabilmente immersi. Di fatto, sarà anche, e per certi aspetti massicciamente, su questo terreno che si evolverà la ri­sposta operativa di Don Cocchi, di Don Bosco, del Murialdo e di altri preti torinesi. Non fu piccolo infatti il numero degli ec­clesiastici che, per più anni, si trovarono solidarmente impegna­ti nell’opera degli Oratori, anche se non tutti con la stessa in­tensità.

1.1.3.  Modello sacerdotale e spinte operative. La forte tensione ope­rativa e la preoccupazione di offrire concrete risposte, di ca­rattere spicciolo o di più ampio respiro, trovavano motivazioni nello stesso modello sacerdotale assimilato durante gli anni di formazione, rafforzato poi sia dalla letteratura pastorale e spi­rituale, sia da personaggi catalizzatori come il Cottolengo, il Guala e il Cafasso.

Il motivo dello ‘zelo’ pastorale, del ‘farsi tutto a tutti’, senza riguardi per se stesso, del ‘donarsi totalmente spinti dal­la carità’ (Charitas Christi urget nos), nella convinzione che ‘il prete non va solo al cielo, non va solo all’inferno’, con­tribuì non poco ad alimentare l’impegno pastorale, caritativo, educativo nella parte più viva del clero torinese che avrebbe espresso personaggi tanto significativi e disseminato di inizia­tive e istituzioni feconde un ambiente sociale ed ecclesiale ben più vasto.

1.1.4.  Scelte di campo: i giovani poveri e abbandonati; la via educa­tiva. Don Bosco, assecondando l’inclinazione personale e seguendo una vocazione sempre meglio delineata, fin dai primi passi del suo servizio sacerdotale optò per la pastorale dei ragazzi e dei giovani, con preferenza per quelli soggetti a maggior povertà ma­teriale e spirituale. La gioventù‘più abbandonata e pericolan­te’, quelli ‘che sono poveri, più abbandonati e più ignoranti […], perché hanno maggior bisogno di assistenza per tenersi sulla via dell’eterna salute’: espressioni che ritorneranno sempre più spesso negli scritti e nei discorsi di Don Bosco, fino agli ultimi giorni di vita, per indicare una scelta di campo net­ta.

Si trattò agli inizi di quella fascia, sempre più vasta, di migranti stagionali e di giovani lavoratori, trascurata dalla fa­miglia, che non veniva raggiunta o non voleva integrarsi nelle tradizionali strutture civili ed ecclesiastiche (parrocchie o al­tre forme religiose di aggregazione professionale).

Negli anni successivi, con la percezione progressiva della vastità del problema giovanile, le formule assumeranno un’esten­sione più articolata, ‘con il primato dell’aspetto economico-sociale-religioso, ma anche la progressiva inclusione di aspetti culturali, morali, pastorali, missionari’.

La sua opzione implicò, per la natura stessa dei destinata­ri, la scelta privilegiata della via educativa, accanto a quella più squisitamente pastorale, poiché gli permetteva una completa ed efficace azione di trasformazione interiore e di incidenza po­sitiva ‘nello sviluppo e nella formazione delle facoltà umane, tali da rendere ciascuno capace abitualmente di decisioni libere e personali, in generoso impegno di vita, individuale e sociale, morale e religioso’.

1.2. L’Oratorio come proposta di soluzione

1.2.1. Modelli ispiratori e opzioni personali. Il catechismo a Barto­lomeo Garelli (8 dicembre 1841) aprì a Don Bosco uno spiraglio per fare qualcosa di concreto a favore di quelle moltitudini di ragazzi vaganti, che avrebbe voluto curare, ma non poteva ‘per mancanza di locale’. La sua condizione di prete studente per­mettava un impegno solo parziale, né la semplice simpatia dimo­strata sulla strada avrebbe avuto effetti di qualche consistenza, egli lo sapeva. Il catechismo si rivelò l’avvio più naturale e indovinato della sua opera, grazie al fortunato innesto su atti­vità già esistenti al Convitto. Infatti ‘il sig. D. Caffasso [sic] – scrive Don Bosco nel 1854 – già da parecchi anni in tempo estivo faceva ogni domenica un catechismo a’ garzoni muratori in una stanzetta annessa alla sacrestia di detta chiesa [S. France­sco d’Assisi]. La gravezza delle occupazioni di questo sacerdote gli fecero interrompere questo esercizio a lui tanto gradito. Io lo ripigliai sul finire del 1841, e cominciai col radunare nel medesimo luogo due giovani adulti, gravemente bisognosi di reli­giosa istruzione. A costoro se ne unirono altri e nel decorso del 1842 il numero montò a venti e talora a venticinque’.

Dunque, l’ispirazione immediata fu il Cafasso con i suoi ca­techismi agli immigrati più grandicelli, bisognosi di cure perso­nalizzate; ma certamente anche Don Cocchi servì da stimolo.

Col passare del tempo Don Bosco capirà che un servizio pa­storale a quel tipo di giovani imponeva non solo dedizione, ma anche riflessione, chiarezza di obiettivi e di metodo. Si preoc­cuperà allora di studiare la ricca tradizione cattolica in campo educativo e pastorale: la secolare esperienza della Dottrina Cri­stiana, l’opera e il metodo di S. Filippo Neri, di S. Carlo Bor­romeo, la tradizione collegiale dei Gesuiti e dei Barnabiti e l’esperienza pedagogica popolare dei Fratelli delle Scuole Cri­stiane. Prenderà anche contatti con iniziative contemporanee la­vorandovi personalmente (opere della marchesa Barolo), o visitan­dole (Oratorio di S. Luigi a Milano), o studiandone i regolamen­ti. Soprattutto, si sentirà in sintonia ideale e operativa con il gruppo di educatori e pedagogisti raccolti attorno alla rivista torinese “L’Educatore primario” e con la vivace schiera di sa­cerdoti diocesani affratellati dagli stessi ideali di cura della gioventù povera.

Don Bosco seppe cioè captare stimoli, elementi metodologici e iniziative diverse, modellando il suo intervento in una sintesi originale, secondo i bisogni dei giovani cui si rivolgeva e la propria genialità o carisma.

Caratteristica del suo Oratorio fu, ad esempio, il fatto di non essere né parrocchiale né interparrocchiale; una struttura flessibile, libera da schemi ripartitivi rigidi, più atta ad un’opera di mediazione tra chiesa, società urbana e fasce popola­ri giovanili che non s’adattavano all’inquadramento parrocchiale. Non fu però un’antitesi alla parrocchia. Don Bosco pensò l’Orato­rio come contributo ‘per una possibile ristrutturazione della pa­storale urbana e regionale’, in risposta alle situazioni createsi a Torino con il moto migratorio e lo scadimento dei valori reli­giosi connessi alla struttura parrocchiale.

In effetti, l’Oratorio potrebbe essere visto come un ammo­dernamento di esperienze ecclesiali del passato, riplasmate se­condo i bisogni dei tempi: si pensi ad esempio ai Terzi Ordini o alle medioevali Confraternite di categorie professionali, ancor vive a Torino sotto il nome di ‘Congregazioni’ o ‘Compagnie’. Analoghe iniziative, anche queste sganciate da suddivisioni par­rocchiali, si stavano muovendo o si sarebbero mosse sul terreno caritativo e socio-religioso, quali le conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli e le Società Operaie Cattoliche, confluendo a fine se­colo, insieme ad un pullulare di altre forme associative, nell’O­pera dei Congressi, e contribuendo notevolmente alla rivitalizza­zione della stessa struttura parrocchiale.

Altre opzioni personali di Don Bosco riguardano il metodo, lo stile educativo e pastorale, l’impostazione dell’ambiente, delle iniziative e dei rapporti, la concezione dell’Oratorio come struttura aperta quanto al tempo (tutta la giornata festiva, non solo alcune ore) e quanto alle persone (tutti i giovani, non solo una determinata categoria): aspetti che riprenderemo più oltre.

1.2.2. Le prime esperienze alla ricerca di una formula. Nel triennio trascorso al Convitto (1841-1844) Don Bosco, che incominciava ad accogliere ‘scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, qua­dratori e altri che venivano di lontani paesi’, incentrò la sua domenicale assemblea giovanile intorno alla catechesi (un semplice catechismo adatto al livello dei suoi poveri giovani) e alla pratica dei doveri religiosi, secondo uno schema molto sem­plice: ‘L’Oratorio si faceva così. Ogni giorno festivo si dava comodità di accostarsi ai santi sacramenti della confessione e comunione, ma un sabato ed una domenica al mese era stabilita per compiere questo religioso dovere. La sera, ad un’ora determinata, si cantava una lode, si faceva il catechismo, poi un esempio col­la distribuzione di qualche cosa, ora a tutti, ora tirata a sorte’.

L’utilizzo del premio rispondeva a motivi pedagogici, ma era anche uno strumento spicciolo di beneficenza usato, insieme ad altre misure di immediato soccorso, per risolvere più urgenti ne­cessità. Lo aiutavano in questo il teologo Guala e Don Cafasso i quali, come scrive Don Bosco, ‘talvolta mi diedero mezzi per ve­stire alcuni che erano in maggior bisogno, e dar pane ad altri per più settimane, fino a tanto che col lavoro potessero guada­gnarsene da sé’.

Le periodiche solennità liturgiche o patronali fecero con­statare al Santo il valore pedagogico della festa – così radicata nel gusto popolare e giovanile – , momento privilegiato per crea­re aggregazione, familiarità ed amicizia, per facilitare la comu­nicazione di valori educativi e religiosi. Questo strumento, potenziato e organizzato, insieme ad altre manifestazioni altret­tanto amate dai giovani, come la musica e il canto, sarebbe dive­nuto uno dei momenti centrali del metodo pastorale-educativo svi­luppato in seguito.

Durante la settimana Don Bosco impiegava i momenti liberi dallo studio e dagli impegni di convittore nel conoscere di per­sona le condizioni di vita e di lavoro dei suoi allievi. Scrive: ‘Lungo la settimana andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle officine, nelle fabbriche. Tal cosa produceva grande conso­lazione ai giovanetti, che vedevano un loro amico prendersi cura di loro; faceva piacere ai padroni, che tenevano volentieri sotto la loro disciplina giovanetti assistiti lungo la settimana[…]. Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccoccie piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle, sempre nell’oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la disgrazia di essere co­là condotti, assisterli, rendermeli amici’.

Egli desiderava per tutti quei giovani un lavoro onesto, in condizioni di sicurezza e di rispetto, poiché lo riteneva un bi­sogno vitale, la migliore garanzia per il futuro. Per formazione ed esperienza sapeva che l’ozio e le cattive compagnie costitui­scono i pericoli peggiori per i giovani abbandonati, e si dava da fare affinché tutti fossero utilmente e dignitosamente impiegati lungo la settimana.

Altra intuizione pedagogica di questo periodo fu quella di cercare la collaborazione di giovani ben formati. La loro presen­za aveva un’efficacia particolare, perché, mentre prestavano un aiuto notevole nell’animazione del gruppo e permettevano di mol­tiplicare le iniziative, si rivelavano modelli pedagogicamente incisivi per ragazzi abituati ad ambienti e a modi di vita ben diversi. 

La situazione di prete studente e la limitatezza di spazi nel Convitto non gli permettevano di più: nel 1842 il numero dei ragazzi raggiunti si aggirava sulla ventina e nel 1843 salì a cinquanta. Non era molto, tuttavia la cura pastorale e il rapporto di assistenza e di azione personalizzata gli permise di constatare miglioramenti tali da indurlo a desiderare un’azione più continuata e organizzata, a raggi sempre più vasti.

1.2.3. L’Oratorio ‘itinerante’. Innanzitutto era necessario reperire spazi meno limitanti di quelli del Convitto, dove ‘il silenzio e la tranquillità che esigevano le pubbliche funzioni di quella frequentatissima chiesa’ non si accordavano con le esigenze vita­li di un gruppo giovanile. ‘Perché l’istruzione religiosa – anno­ta il Santo – trattiene i giovani per qualche spazio di tempo, dopo è mestieri qualche sfogo, o passeggiando o trastullandosi’. L’occasione gli si presentò quando, termina­ti gli studi al Convitto, egli fu assunto come cappellano delle opere della marchesa Barolo (Rifugio e Ospedaletto) collocate a Valdocco, nella zona in cui prati, orti e sterpaglie segnavano il margine estremo della periferia. Il consenso della caritatevole e coraggiosa signora e l’aiuto del teologo Don Giovanni Borel (1801-1873), direttore responsabile del Rifugio, gli permisero di te­nere i catechismi domenicali prima nell’appartamento dei cappel­lani, poi in alcuni locali dell’Ospedaletto di S. Filomena, che non era ancora stato inaugurato. Durante la settimana il Santo svolgeva ministero sacerdotale e si prestava come insegnante per le ragazze abbandonate e ‘traviate’ accolte nel Rifugio.

Il Borel fu per Don Bosco un appoggio decisivo: lo affiancò nel lavoro tra i ragazzi e lo sostenne con la sua consumata espe­rienza pastorale; lo mise in contatto con una cerchia più vasta di ecclesiastici e di laici sensibili ai problemi popolari e gio­vanili; lo introdusse negli ambienti più aperti e disponibili della nobiltà e della borghesia. Insieme delinearono il progetto di un’azione più regolare e ordinata. Si consultarono coll’arci­vescovo il quale riconobbe la necessità di un’opera pastorale in­dipendente dalle parrocchie, per la qualità dei destinatari, e li incoraggiò a proseguire. Nacque così, anche a livello istituzio­nale, l’Oratorio di S. Francesco di Sales, con cappella propria, ricavata negli ambienti provvisoriamente concessi nell’Ospedalet­to e benedetta l’8 dicembre 1844. La scelta del vescovo savoiardo come titolare e patrono dell’Oratorio fu dettata soprattutto da motivazioni pastorali e pedagogiche, esigendo tale ministero ‘grande calma e mansuetudine’: la carità pastorale, l’amore edu­cativo vennero assunti a principio di metodo.

Da qual momento il numero dei giovani frequentatori aumentò considerevolmente, attirati dagli spazi liberi dei prati circo­stanti, raccolti e curati in una cappella tutta per loro. Accanto a Don Bosco e al Borel si affiancò nel lavoro diretto anche Don Sebastiano Pacchiotti (1806-1884), altro cappellano dell’Opera Barolo; si aggiungeranno presto, come catechisti, altri sacerdoti e laici.

‘Nella cappella annessa all’edifizio dell’Ospedaletto di S. Filomena l’Oratorio prendeva ottimo avviamento. Nei giorni festi­vi intervenivano in folla i giovanetti per fare la loro confes­sione e comunione. Dopo la messa tenevasi breve spiegazione del Vangelo. Dopo mezzodì catechismo, canto di laudi sacre, breve istruzione, litanie lauretane e benedizione. Nei varii intervalli i giovani erano trattenuti in piacevole ricreazione con trastulli diversi. Ciò facevasi nel piccolo viale che tuttora esiste tra il monastero delle Maddalene e la via pubblica’.

Nell’estate successiva, dovendosi inaugurare l’Ospedaletto, la marchesa si vide costretta a sfrattare la cappella e ad inter­dire ogni attività all’interno dell’edificio. Incominciò la fase itinerante dell’Oratorio. Dal giugno 1845 all’aprile 1846, di do­menica in domenica, ci si dava appuntamento presso varie chiese della periferia (Madonna del Pilone, Monte dei Cappuccini, Sassi, Crocetta, Madonna di Campagna…). Per alcuni mesi (luglio-di­cembre) si ottenne dal municipio la possibilità di usufruire, in tempi delimitati, della cappella di S. Martino ai Molassi e dello spiazzo antistante (oggi piazza P. Albera). Tuttavia la massa crescente e disordinata dei giovani e la natura delle attività oratoriane rendevano urgente il reperimento di locali riservati e dislocati in modo da non recare disturbo: cosa difficile sia per problemi finanziari, sia per la scarsa offerta, in anni di forte sviluppo demografico.

Nell’inverno 1845-1846 il Borel e Don Bosco riuscirono ad affittare tre stanze in casa Moretta, non lontano dal Rifugio, per i catechismi festivi e serali. Era una soluzione inadeguata, ma permise di avviare altre attività. Don Bosco, infatti, era convinto, come molti in quegli anni, che l’istruzione costituisse uno ‘strumento essenziale per illuminare la mente e orientare la ragione’; ne vedeva anche l’utilità pratica quotidiana, eco­nomica, e quindi la potenzialità di sviluppo sociale. Nei quattro mesi trascorsi in casa Moretta si tentò un primo esperimento di scuola serale per l’alfabetizzazione di alcuni giovani lavorato­ri, con l’elaborazione di un metodo didattico più duttile del tradizionale. I risultati furono soddisfacenti.

1.2.4. La fase di strutturazione e organizzazione. L’inaugurazione della cappella nella tettoia Pinardi (12 aprile 1846), l’affitto progressivo di tutta la casa adiacente (dieci stanzette) e del cortile circostante, segnano la conclusione della fase sperimen­tale e l’inizio del consolidamento istituzionale, pastorale e educativo, dell’Oratorio di S. Francesco di Sales. Don Bosco, ap­poggiato dall’Arcivescovo, decise di dedicarsi totalmente all’o­pera e lasciò gli impegni di cappellano nel Rifugio e nell’Ospe­daletto. Il passo segna una svolta radicale, coraggiosa: si buttò allo sbaraglio, senza alcuna risorsa economica, sfidando i rischi di un lavoro di frontiera e le riserve, fortemente critiche, di molti confratelli e di autorità civili.

Tra 1846 e 1848 l’Oratorio di Don Bosco assunse una fisiono­mia caratteristica, che lo distingue da altre istituzioni simili. Innanzitutto il Santo si preoccupò di consolidare attività ed esperienze già avviate precedentemente. Il numero dei ragazzi, aumentato considerevolmente negli ultimi mesi, superava le 400 presenze domenicali e arrivò in determinate circostanze oltre 600. Era necessario raggiungere un giusto equilibrio tra li­bera partecipazione, spontaneismo e disciplina; suddividere i giovani in classi non troppo numerose per il catechismo; regola­re fin nei dettagli i giochi del cortile, per occupare tutti ed evitar disordini; trovare ritmi e interventi bilanciati nella pratica religiosa e sacramentale; portare a maturazione intuizio­ni precedenti, ricche di potenzialità, come la scuola di canto, le scuole serali e festive di alfabetizzazione e di istruzione basilare, i catechismi quaresimali per i giovani lavoratori…

Superato lo scoglio degli spazi e dei locali, si affacciano urgenti altri problemi: il necessario reclutamento di collabora­tori sempre più numerosi; la cura e il rapporto personalizzato attraverso la presenza in cortile e i contatti infrasettimanali negli ambienti di lavoro; la ricerca di attrezzature e di sussi­di.

Pregio di Don Bosco fu l’aver saputo coinvolgere nella col­laborazione sacerdoti, chierici, giovani studenti e laici appar­tenenti alle più diverse classi sociali. Tra gli stessi ragazzi dell’Oratorio egli individuò i più intraprendenti e fidati ai quali demandare attività e settori specifici. I sui appelli alla cooperazione, rivolti a privati e a istituzioni pubbliche, sia attraverso la corrispondenza e la stampa, sia  con iniziative originali (come le grandi lotterie), sortirono effetti di un’am­pia sensibilizzazione ai problemi giovanili, oltre ché, natural­mente, sussidi economici.

1.2.5. Obiettivi, metodi, àmbiti, attività. Soprattutto Don Bosco si diede alla organizzazione interna dell’Oratorio. A livello espe­rienziale, più che teorico, mise a punto obiettivi, metodi, ambi­ti, attività e ritmi. Stilò un Regolamento essenziale, arricchito e articolato col tempo. Individuò momenti privilegiati dell’anno (le feste liturgiche, la quaresima, il mese di maggio, il mese di S. Luigi, i ritiri mensili, gli esercizi spirituali) attorno ai quali polarizzare l’attenzione dei ragazzi, che servissero come tappe di un itinerario di crescita spirituale. Diede molto spazio al canto corale, ricreativo e sacro; introdusse la musica stru­mentale bandistica, con appositi corsi. Potenziò le scuole festi­ve e serali, regolarizzandole e collegandole ad analoghe espe­rienze che nascevano in città. Soprattutto, valorizzò e arricchì i mezzi ricreativi, come i divertimenti del cortile (giochi per tutti, gioco educativo, gioco di massa), la ginnastica (sull’e­sempio di D. Cocchi) e la recitazione nella sue varie espressio­ni.

Allo scopo di curare la crescita spirituale dei giovani più sensibili e di impegnarli quali animatori ed apostoli dei compa­gni, istituì la ‘Compagnia di S. Luigi Gonzaga’, con proprio re­golamento e riunioni formative settimanali. Da questa esperienza germineranno in seguito la Compagnia dell’Immacolata, quella del Ss. Sacramento con il ‘piccolo clero’, la Compagnia di S. Giusep­pe, più attente agli aspetti religiosi; la Società di Mutuo Soc­corso tra i giovani artigiani e la Conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli, più protese verso l’azione caritativa e sociale.

Il ritmo di preghiera e di celebrazioni liturgiche fu strut­turato progressivamente, con flessibilità, adattandolo al gusto giovanile e popolare, riducendo all’essenziale le pratiche comu­nitarie (in confronto agli usi del tempo) e lasciando alla liber­tà di ciascuno una varietà di proposte spicciole per la pietà in­dividuale.

L’Oratorio, per il suo vitale innervamento nella realtà socio-religiosa, sotto la pressione delle domande giovanili e delle urgenze, diveniva per Don Bosco, progressivamente, una sti­molante fucina di iniziative e di esperienze. Da cosa nasceva co­sa.

*Innazitutto la necessità di pubblicazioni adatte alle esi­genze  e al livello dei giovani, redatte in linguaggio piano e popolare: libri di preghiera, sussidi per la pietà personale,manuali per la scuola, libretti di letture amene ed istruttive a sfondo storico, sintesi catechistiche e dottrinali facili, comme­diole e teatri… Don Bosco si rivelò fecondo scrittore popolare e suscitatore di iniziative editoriali.

*La grande affluenza di giovani da ogni parte della città stimolò il gruppo di sacerdoti dell’Oratorio alla fondazione di un secondo centro, a Porta Nuova, intitolato a S. Luigi (8 dicem­bre 1847) e alla riapertura (1849) dell’Oratorio dell’Angelo Cu­stode di D. Cocchi, soppresso dall’Arcivescovo per problemi lega­ti agli eventi del 1848. Le periferie più misere di Torino veni­vano così munite di centri aggregativi e missionari per una più ordinata azione educativa e pastorale.

*Si presentò presto (1847), anche a Valdocco, la necessità di offrire accoglienza ai ragazzi senza famiglia, come già stava iniziando a fare D. Cocchi. Nacque una piccola comunità giovani­le, gestita in forma familiare, che con il trascorrere degli anni si sarebbe consistentemente potenziata, tanto da richiedere am­pliamenti edilizi progressivi. L’opera, della ‘Casa annessa all’Oratorio di S. Francesco di Sales’, è stata motivata da Don Bosco in questi termini: ‘Fra i giovani che frequentano questi oratori se ne trovarono di quelli talmente poveri ed abbandonati che per loro riusciva quasi inutile ogni sollecitudine senza un sito dove potessero essere provveduti di alloggio, vitto e vesti­to. A questo bisogno si studiò di provvedere colla casa annessa […] e si cominciarono a raccogliere alcuni dei più poveri. In quel tempo essi andavano a lavorare per la città restituendosi alla casa dell’Oratorio per mangiare e dormire’.

*L’importanza, per la redenzione giovanile e il riscatto so­ciale, dell’inserimento in una seria vita di lavoro e, di contro, le precarie condizioni degli apprendisti, spesso sfruttati, con scarso profitto nella loro qualificazione professionale, suggeri­rono a Don Bosco l’idea di curare direttamente anche questo aspetto. Dapprima cercò mastri artigiani onesti ed affidò loro i suoi giovani, stilando anche appositi contratti di formazione-lavoro, poi verificò la necessità di istituire laboratori artigi­nali nell’Oratorio stesso, che si trasformassero in vere scuole professionali (sarti, calzolai, legatori, falegnami, tipografi, fabbri-ferrai).

*L’incuria educativa in cui erano lasciati i fanciulli delle classi più misere, non ancora impegnati nel lavoro, stimolò l’a­pertura nell’Oratorio di Valdocco e in quello di Porta Nuova di una scuola elementare diurna, a vantaggio di ‘que’ giovanetti che o per essere male vestiti o per non potersi abituare ad una rego­lare disciplina’ non erano accettati nelle pubbliche scuole o ne erano espulsi; fanciulli ‘per lo più orfani o trascurati dai loro parenti [che] anche in tenera età scorrono le vie e le piazze rissando, bestemmiando e rubacchiando’.

*Nei ceti più poveri, erano molti i ragazzi dotati intellet­tualmente e moralmente, ma impossibilitati a mettere a frutto le loro qualità per la povertà economica. Don Bosco maturò allora il progetto di accogliere e favorire anche giovani che‘avessero ta­le condotta morale e tale attitudine allo studio da lasciar non dubbia speranza d’onorevole riuscita in una carriera scientifica’. In Valdocco il gruppo degli ‘studenti’ crebbe di anno in anno: prima frequentavano una scuola della città, poi (dal 1854), quando qualcuno di loro finì gli studi e si rese di­sponibile, Don Bosco istituì un ginnasio proprio, per una più ef­ficace incidenza educativa, maggior libertà didattica e metodolo­gica, particolare attenzione alla cura di vocazioni ecclesiasti­che.

*Durante la crisi sociale e politica del 1848-1849 gli Ora­tori torinesi subirono i contraccolpi del clima di euforia pa­triottica e di generale disorientamento ideologico. Anche nel gruppo dei preti oratoriani si manifestarono tensioni, divisioni e conseguenti divergenze di scelte educative. Don Bosco, che ave­va già maturato una sua linea pedagogica e pastorale, preferì ga­rantirsi totale autonomia, appoggiandosi direttamente sull’arci­vescovo. Nominato direttore responsabile degli Oratori di Valdoc­co, Porta Nuova e Vanchiglia, puntò sulla collaborazione di alcu­ni ecclesiastici e laici scelti, con i quali si sentiva in mag­gior sintonia ideale, e riconobbe la necessità di formarsi aiu­tanti stabili tra i giovani stessi, cresciuti nel suo spirito  e nel suo sistema, come pure tra il gruppo dei chierici ai quali dava ospitalità, dopo la chiusura del seminario cittadino (durata dal 1848 al 1862).

Giovani e  chierici formarono un gruppetto affiatato attorno a Don Bosco. Il confronto sui temi educativi e spirituali, lo scambio di idee, avveniva in settimanali ‘conferenze’: ne derivò unitarietà di intenti, omogeneità di scelte, unanimità di metodo e coordinamento di iniziative. Lentamente maturò nella mente del Santo l’idea di una ‘Società’ o ‘Congregazione’ costituita da ec­clesiastici e da laici consacrati all’educazione della gioventù. Nel 1854 si costituì il primo raggruppamento, privato e segreto, di ‘Salesiani’ (da S. Francesco di Sales); nel dicembre 1859 la ‘Società Salesiana ‘ era ufficialmente fondata.

*Da quel punto in poi scaturirono iniziative sempre più va­ste, anche molto lontane come struttura dal primitivo Oratorio festivo, di cui costituivano uno sviluppo, ma ad esso sempre vi­cine come spirito e finalità.

1.2.6. Gli sviluppi e le gemmazioni nel tempo. Oratorio e realtà territoriale, sociale ed ecclesiale. L’Oratorio festivo, però, continuava il suo cammino e la sua funzione, accanto alla ‘Casa annessa’, ai laboratori e alle scuole interne. Anzi, rimase sem­pre l’attività più cara al cuore di Don Bosco, la più fresca e dinamica delle sue istituzioni, la più vicina al sentire popolare e ai gusti dei giovani. Egli, negli anni Sessanta, separò le due opere perché ormai avevano ritmi ed esigenze diverse, affidando la direzione dell’Oratorio ad un suo collaboratore fidato. Le at­tività, i ritmi, il clima libero e festoso continuarono ad essere gli stessi dei primi tempi.

I destinatari privilegiati rimasero i ragazzi di ceto popo­lare e i giovani lavoratori del borgo e della periferia, anche se la categoria degli stagionali si era esaurita alla fine degli an­ni Cinquanta. Gli studenti erano presenti in qualità di catechi­sti, animatori, insegnanti; il loro numero aumenterà progressiva­mente soprattutto dopo il 1874 con la soppressione, nelle scuole pubbliche, delle ‘Congregazioni degli studenti’, cioè delle riu­nioni per la catechesi scolastica e le pratiche religiose. Per loro si costituiranno ‘Scuole di Religione’ e appositi ‘Circoli’, accanto alle associazioni degli Operai.

Con l’introduzione a livello legislativo dell’obbligatorietà dell’istruzione elementare e l’aumento di presenza degli studen­ti, l’Oratorio tendeva sempre più ad estendere la sua attività all’intera settimana: catechesi, scuola serale per i lavoratori o ‘doposcuola’ per i ragazzi, filodrammatica, musica bandistica, corali, sport organizzato e gioco libero…, divennero attività quotidiane.

Tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecen­to, per impulso di Don Michele Rua (1837-1910), primo successo­re di Don Bosco, in un contesto di grosse tensioni sociali e di vivaci iniziative cattoliche, l’Oratorio salesiano visse una sta­gione di nuova fioritura, con una più marcata valenza sociale. In certi quartieri popolari delle grandi città, generazioni intere crescevano nei cortili dell’Oratorio salesiano  e spesso conti­nuavano a frequentarlo anche in età adulta. Per molti di loro l’Oratorio, da centro di attrazione ricreativa, si era trasforma­to in ambiente vitale, luogo di formazione umana e cristiana, ef­ficace mediazione ecclesiale. Il Movimento Cattolico, le Unioni Operaie, le associazioni di ispirazione cattolica a carattere so­ciale, caritativo e anche politico alimentarono le loro fila tra i giovani educati negli Oratori, salesiani e non. L’Oratorio si rivelò anche un fecondo vivaio di vocazioni ecclesiastiche.

Per la reciprocità di influsso tra opera salesiana e terri­torio, spesso si è registrato il caso di Oratori che hanno modi­ficato il volto umano di interi quartieri o periferie cittadine. Si è verificata, allora, ‘la grande rivoluzione di Don Bosco’ – come è stato scritto con una certa enfasi – un progetto che, per la sua diffusione e dinamicità, ha investito ‘tutta la società italiana dell’era industriale’.

Nella fase di espansione della Congregazione Salesiana Don Bosco e i successori si preoccuparono sempre di far sorgere, se possibile, un Oratorio festivo accanto ad ogni collegio, nella convinzione che ‘Chi voglia rigenerare una città od un paese non ha altro mezzo più potente: bisogna che cominci coll’aprire un buon Oratorio festivo’. Non solo, ma propagandarono l’Orato­rio come patrimonio comune della chiesa italiana, di facile inne­sto in diversi contesti culturali, sociali ed ecclesiali. Cerca­rono di diffonderlo particolarmente tra il clero diocesano, aiu­tati in questo dal Movimento Cattolico. Scriveva, ad esempio, ai parroci, nel 1895, un attivo propagatore della necessità di ‘a­zione cattolica’: ‘Con quanta poca fatica si impianta, volendo sul serio, un oratorio festivo, la prima opera, la più urgente e la più necessaria della parrocchia, perché prepara la nuova gene­razione; quella che se ne tira dietro altre quattro o cinque; che, prima di essere, ha già dato risultati benefici […]. Quan­to al cortile pei giovani, è la cosa più facile del mondo: la ca­nonica non ne mancherà; almeno non mancherà un giardinetto o un orto […][caro reverendo] scalzi le rape, e pianti le altale­ne. Con una cinquantina di lire si adatta per oratorio qualunque locale; ingrandendosi l’opera il Signore farà trovare di meglio e di più adatto. Tutto sta a cominciare al più presto, senza esita­zioni. Adunati i fanciulli sotto la sorveglianza dei suoi amici [tre o quattro adulti ben scelti], sarà facile trovare il modo di far loro un po’ di dottrina, conducendoli in parrocchia, a squa­dre, dopo le funzioni, da soli, a porte chiuse; e, dopo il cate­chismo farà molto bene una predichina corta, ma adatta a loro, a loro soli, a cui seguirà la benedizione. Eppoi di nuovo in corti­le fino a sera. E’ vero ch’ella avrà doppia funzione, che non avrà un momento di riposo in tutta la domenica […]. Ma, mio ca­ro amico, se Gesù Cristo avesse badato alla fatica, io sarei an­cora ebreo e lei non sarebbe prete. Del resto, l’ha fatto Don Bo­sco, l’hanno fatto tanti’.

Un Congresso sugli Oratori festivi si tenne a Torino nel 1902, per interessamento di Don Michele Rua, frequentatore dell’Oratorio fin dal 1846. Vi furono coinvolte forze cattoliche rappresentative di ogni settore: diocesi, congregazioni, associa­zioni. Lo scopo era quello di mettere esperienze a confronto e di stimolare la fondazione di Oratori accanto a tutte le parrocchie e agli stessi seminari diocesani. Si raccomandava: ‘Nella deter­minazione del locale per l’Oratorio festivo si curi ch’esso sia comodo, attraente, igienico, proporzionato al numero dei giovani, e soprattutto spazioso, affrontando generosamente la spesa neces­saria con una pubblica sottoscrizione del clero, delle autorità e de’signori, od anche conazioni permanenti o temporanee, oppure in quelle maniere suggerite dalle circostanze locali e di tempo, facendo pur partecipare in questa benefica opera persone d’idee differenti dalle nostre […]. Nelle popolose città […] si ac­cordino tra loro i Parroci e, dopo d’aver studiato l’importantis­simo problema dell’istruzione e dell’educazione della gioventù, vengano nella pratica deliberazione di erigere uno o più Oratori festivi, ne’ punti principali della città; e, non potendoli diri­gere essi stessi, o per mezzo di un altro sacerdote, si rivolgano a qualche Congregazione’.

L’esperienza oratoriana di Don Bosco, attuata in forme ca­ratteristiche e originali, ritornava a beneficio dell’intera co­munità ecclesiale, stimolo ad una pastorale giovanile più atten­ta, fermento di rinnovazione delle stesse strutture parrocchiali, fuori dai cui schemi era nata e cresciuta.

2. IL PROGETTO-ORATORIO DI DON BOSCO

2.1. Programma originale di espressione giovanile, evangelizza­zione e animazione culturale.

2.1.1. Progetto operativo. L’Oratorio di Don Bosco non si qualifica per le sole attività, ma per l’insieme di obiettivi, metodo e at­tività, più un certo clima-ambiente che gli fornisce coloriture caratterizzanti.

Le definizioni – quelle date occasionalmente da Don Bosco o da altri – risultano inadeguate a descrivere realtà e funzione di questa ‘dinamica e imprevedibile aggregazione giovanile’, che nell’arco di centoquarant’anni, in contesti mutati, si è rivelata duttile, feconda e viva. Le ragioni stanno nelle radici storiche del progetto, nel suo essere nato dalla vita e non a tavolino, nella cultura e nella personalità stessa di Don  Bosco.

Pietro Braido, per indicare la totalità degli interventi messi in atto dal Santo a favore della salvezza della gioventù, preferisce usare l’espressione ‘progetto operativo‘, formula sin­tetica che permette di definire la realtà storica nella sua com­pletezza, che non è solo pastorale o educativa o spirituale. In­fatti Don Bosco si è mosso costantemente e coscientemente su due piani: sul piano dei fatti, innanzitutto, senza rinunciare al piano delle idee, di quadri storici di riferimento. Uomo attivo e pragmatico, egli è pervenuto di fatto a elaborare il suo progetto-Oratorio, mai, però, rinunciando a un quadro di riferi­mento ideale, antropologico e teologico, come ‘supporto, più o meno riflesso, coerente e esauriente del progetto’.

La convinzione dell’urgenza operativa fece da molla a tutta la vita di Don Bosco: ‘siamo in tempi in cui bisogna operare[…] – egli afferma – Il  mondo attuale vuole vedere le opere, vuole vedere il clero lavorare a istruire e a educare la gioventù povera e abbandonata […]. E questo è l’unico mezzo per salvare la povera gioventù istruendola nella religione e quindi di cri­stianizzare la società’.‘Ora i tempi sono cangiati, e quindi oltre al fervente pregare, conviene lavorare ed indefessamente lavorare, se non vogliamo assistere alla intera rovina della pre­sente generazione’.

L’operatività intelligente costituisce un primo elemento ca­ratterizzante dell’Oratorio di Don Bosco.

2.1.2. Progetto in divenire, nella fedeltà alla storia. Il progetto-Oratorio coincide, dunque, con la vita stessa di Don Bo­sco, con la sua multiforme e infaticabile azione; non è la rap­presentazione di un copione predisposto, come ci potrebbe far credere una certa agiografia. E’ stato un crescere continuo di iniziative e di esperienze, stimolato da urgenze e bisogni, da spinte interiori ed esterne, religiose e sociali: ‘una formazione “storica”, faticosamente costruita nell’azione quotidiana’.

E’ questa la seconda nota che specifica il progetto: fedeltà al contesto storico in cui si opera e alla realtà dei giovani de­stinatari.

Tale attenzione ha conferito all’Oratorio di Don Bosco una carica dinamica tale da renderlo, ‘al di là di talune rigidità contingenti, […] “sistema aperto”, pro-attivo e non re-attivo; capace, quindi, di mantenere l’equilibrio interno di for­ma e di ordine e, nello stesso tempo, di crescere in complessità e differenziazione di parti verso equilibri più avanzati, che consentono un rapporto transazionale con l’ambiente sempre più intenso ed arricchente’.

Quando nella storia si è dimenticata tale attenzione per rinchiudersi in formule rigide, in schemi ripetitivi, l’Oratorio ha perso la sua freschezza ed è andato incontro a una irrimedia­bile decadenza e conseguente sterilità.

2.1.3.  Progetto globale di intervento. La terza nota caratterizzante dell’Oratorio, così come Don Bosco lo ha realizzato, è la globa­lità di intervento. Il fatto di trovarsi di fronte a giovani to­talmente bisognosi lo ha spinto a offrire loro tutto ciò di cui necessitavano ‘per vivere con pienezza la loro esistenza umana e cristiana: fede operosa, grazia, vestito, vitto, alloggio, lavo­ro, studio, tempo libero, gioia, cameratismo, amicizia, parteci­pazione, attivismo,  inserimento sociale’. Il Santo, di fatto,‘ha realizzato e prospettato con chiarezza le linee di un piano di azione, di un metodo e di uno “stile”, caratterizzati dalla tensione a promuovere la massima espansione umana e religiosa, individuale e sociale, dei giovani, con la cura di salvaguardare, insieme alla totalità, la gerarchia dei valori: dalla sopravvi­venza fisica all’esistenza di Dio, dalla cultura al tempo libero, dall’integrità morale alla disponibilità comunitaria’.

Anche quando le istituzioni si sono diversificate (collegi, scuole professionali, missioni), Don Bosco ha voluto che l’Orato­rio festivo mantenesse la sua globalità di proposta, la sua unità e articolazione originale. Questa sola, infatti, evita la setto­rializzazione, l’ipertrofia di un tratto a scapito degli altri. Quando ciò avviene si assiste alla perdita dell’identità origina­le e‘nascono così gli Oratori “ludici-sportivi”, e, per rea­zione, quelli “catechistici”, quelli “associazionistici”, quelli “movimentisti di quartiere”, quelli che si propongono “casa della comunità”’.

Indichiamo le coordinate essenziali che conferiscono al pro­getto le caratteristiche di una proposta globale.

*La ‘salvezza’ della gioventù è il cuore, lo scopo principale che sostiene tutta l’azione di Don Bosco, il quale ‘costruisce se stesso, logora se stesso e si getta allo sbaraglio perché si sen­te nella trama di Dio salvatore’.

La salvezza è primariamente quella eterna, la ‘salvezza dell’anima’; ma queste ‘anime’ da salvare erano i suoi poveri ra­gazzi, vittime della miseria, dell’ignoranza, del male. Impegnar­si per la loro salvezza significò battersi a livello educativo, pastorale e sociale. Don Bosco si sentì chiamato per questo, ne percepì l’urgenza e si slanciò in un’azione intensamente missio­naria. Non si accontentava che al suo Oratorio arrivassero i gio­vani per attrazione spontanea, si preoccupava di raggiungerli e incontrarli dove essi si trovavano fisicamente e psicologicamen­te. ‘Il movimento è sempre verso le frontiere e i margini reli­giosi, sociali e umani, con lo sguardo rivolto a coloro che le istituzioni regolari non prendono in considerazione, senza esclu­dere, anzi invitando gli altri. [L’Oratorio] E’ per tutti, non rivolto agli speciali dal punto di vista dell’eccellenza o della devianza, ma al povero comune nel quale sono vive le risorse per accogliere una proposta di recupero e crescita’.

Dalla tensione salvifica globale scaturisce il tratto della missionarietà religiosa e sociale, uno dei più marcati e nitidi del primo Oratorio di Don Bosco.

‘Uno dei mezzi principali per accrescere il numero dei suoi ragazzi – scrive il suo biografo – fu quello di andarli a cercare sulle piazze, nelle strade, lungo i viali […]. Passando innanzi alle officine nell’ora del riposo o della colazione non si peri­tava di avanzarsi dove scorgeva in crocchio molti di quei giovani apprendisti, e dopo averli cordialmente salutati, domandava di qual paese fossero, come si chiamasse il loro parroco, se fossero ancor vivi i genitori, quanto tempo era che avessero cominciato ad apprendere quel mestiere […]. La parte vicino a Porta Palaz­zo brulicava di merciai ambulanti, di venditori di zolfanelli, di lustrascarpe, di spazzacamini, di mozzi di stalla, di spacciatori di foglietti, di fasservizi ai negozianti sul mercato[…]. Non avendo appresa alcuna professione, crescevano amanti dell’ozio e del giuoco, dati al furto di borse e fazzoletti […]. Don Bosco adunque tutte le mattine recavasi su questa piazza, ove egli ave­va già fatta conoscenza con un certo numero di que’ giovani, fin da quando l’Oratorio festivo era stato per qualche mese trasferi­to dal Rifugio alla chiesa dei Molini. Incominciò a intrattenersi con qualcuno di que’ garzoni prima col pretesto di chiedere qual­che indicazione di via, o di farsi lucidare le scarpe; e quindi allorché passava vicino ad essi, li salutava […]. A poco a poco li conobbe tutti per nome e parlava loro colla dimestichezza che un padre usa coi propri figli, della necessità di guadagnarsi il paradiso’.

* L’espressione che più ricorre negli scritti e nelle parole di Don Bosco per descrivere l’obiettivo della sua azione educativa e pastorale è ‘buoni cristiani e onesti cittadini’, che negli ulti­mi decenni della sua vita si va specificando in riferimento all’ampliato orizzonte della sua opera, protesa alla rigenerazio­ne della società mediante l’educazione, la prevenzione e il recu­pero dei giovani abbandonati: ‘Se una mano benefica li strappa per tempo dai pericoli, li avvia a una carriera onorata, e li forma alla virtù per mezzo della religione, essi si fanno capaci di giovare a sé e agli altri, diventano buoni cristiani, savii cittadini, per divenire un giorno fortunati abitatori del cielo’.

Dunque si tratta di un modello di uomo e di cristiano che è sintesi del credente tradizionale e del cittadino dell’ordine nuovo, in cui la centralità della fede cristiana e del trascen­dente vanno uniti ad una schietta valutazione delle realtà tempo­rali e dei valori secolari. Spiccano, poi, tra gli altri tratti fisionomici quelli della gioia, dell’umanità cordiale, della correttezza morale, della forte tensione spirituale.

Per contro il modello di società che Don Bosco lascia tra­sparire è quello vetusto della societas christiana, in cui domi­nava ‘l’ideale dello stato confessionale e una società stratifi­cata e ordinata, dove fiorivano il rispetto per le autorità, l’a­more alla fatica, il diritto di proprietà; e le dottrine cattoli­che e morali e il santo timor di Dio costituivano il principio fondante della fraterna e pacifica convivenza di tutti’. E’ questo l’aspetto più storicamente condizionato e caduco che, tut­tavia, esercita un’intensa funzione ispiratrice e, d’altra parte, per il riferimento costante di Don Bosco alla realtà concreta, viene praticamente superato in nuove visioni pragmatiche.

Quanto al modello di Chiesa, Don Bosco condivise in tutto l’ecclesiologia del suo tempo. Alla Chiesa, Cattolica, Apostoli­ca, Romana, egli aderì con senso di rispetto, docile obbedienza e amore. La sentì,  nella sua realtà divina, nelle sue istituzioni, nella sua gerarchia, nei suoi sacramenti, unica arca di salvezza, luogo in cui si opera una continua esplosione del divino, dove fioriscono le virtù, la santità e i miracoli. Salvare la gioventù significava per lui spalancare le porte della Chiesa: portare i giovani alla Chiesa o avvicinare la Chiesa ai giovani, quando le istituzioni risultassero distanti e rigide.

Il suo Oratorio divenne per molti ragazzi luogo di esperien­za e di mediazione ecclesiale.

*L’ambiente oratoriano fu per Don Bosco, innanzitutto, luogo di educazione alla fede. Nel suo programma, dunque, la dimensione religiosa mantiene il primato, ne costituisce il fondamento e l’orizzonte in cui operare per la gioventù. La religione è ele­mento educativo inderogabile, come fine e come mezzo per la sus­sistenza del senso etico e l’attuazione della salvezza eterna e temporale.

Le celebrazioni liturgiche, i sacramenti, la preghiera comu­nitaria e quella personale, hanno lo scopo di coltivare nei gio­vani la dimensione trascendente, infondere in essi il timore di Dio, educarli ad una abituale vita di grazia e di unione amorosa con il Signore da cui scaturiscano motivazioni interiori, energie di impegno operativo e tensione spirituale.

‘Ma la partecipazione personale alla vita religiosa e la ma­turazione nell’impegno morale suppongono fede illuminata, consa­pevole, impossibile senza una sistematica opera di istruzione e di riflessione. Molti sono gli strumenti che a questo scopo mette in atto Don Bosco: la catechesi storica e dottrinale, la cultura religiosa sotto forma di vera scuola, la predicazione (in genere didascalica, semplice e concreta), la meditazione e la lettura spirituale. Trovano pure spazio nella pedagogia della fede espli­cite forme di testimonianza pubblica e di massa: le solenni cele­brazioni religiose, la partecipazione organizzata ai riti litur­gici di gruppo particolari (Piccolo Clero, Cantori, Compagnie), pellegrinaggi a chiese e Santuari’.

*Don Bosco curò con attenzione, non solo strumentale, altri elementi che conferiscono all’Oratorio una fisionomia caratteri­stica di centro giovanile vivo e attraente, ispirato da un umane­simo cristiano mirante all’educazione integrale dei giovani, alla loro formazione morale e culturale. Le attività ricreative di ogni genere, le associazioni, l’espressione teatrale e musicale, le escursioni, le convivenze estive, le varie forme di scuola, sono esperienze che solo apparentemente stanno in secondo piano rispetto alla formazione cristiana e alla maturità spirituale: per il santo educatore costituiscono espressioni talmente quali­ficanti da superare la mera funzione metodologica e strumentale.[51]

Questa preoccupazione di integralità formativa, perseguita attraverso attività diverse e complementari, venne tradotta da Don Bosco in facili formule sintetiche che proponeva ai suoi gio­vani o utilizzava nel far conoscere lo scopo della sua opera: ‘allegria, studio, pietà’; ‘sanità, sapienza, santità’; ‘lavoro, religione, virtù’; ‘lavoro, istruzione, umanità’.

*L’importanza della vocazione personale, da scoprire e da se­guire, è un altro dei temi sottolineato con più forza: ognuno, insegna Don Bosco, è chiamato ad occupare un posto ben preciso nella storia; per questo ha ricevuto da Dio doti, attitudini e opportunità di cui deve rendere conto. Nell’Oratorio il giovane viene educato all’urgenza della scelta vocazionale, e aiutato a maturarla con la direzione spirituale e la progressiva assunzione di responsabilità negli ambienti di vita quotidiana. La cura vo­cazionale, infatti, avviene attraverso il coinvolgimento nell’a­zione pastorale in compiti diversificati, dalla catechesi alla vigilanza sulle attrezzature di gioco, dalla scuola all’interes­samento per i compagni più bisognosi, all’animazione delle ri­creazioni. A questo scopo sono anche mirate le varie associazioni oratoriane.

*Dalla fondazione fin verso gli anni Venti del nostro secolo l’Oratorio fu frequentato prevalentemente da ragazzi e giovani lavoratori o figli di operai. Il servizio di istruzione tramite le scuole diurne elementari e quelle serali ‘di commercio e di musica’ u una necessità per molti decenni e conferì all’Ora­torio un’importante funzione di animazione culturale e di forma­zione morale. Infatti veniva raccomandato: ‘Si insegni pure la scienza e la letteratura, ma non si dimentichi mai l’essenziale, che è l’istruzione religiosa e la pratica della virtù’.

A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, verso la fine della vita di Don Bosco, vennero inserite nell’Oratorio anche le ‘Scuole di Religione’, per gli studenti, e la ‘Classe adulti’ per i giovani operai e vari Circoli Giovanili. In essi venivano ap­profondite tematiche catechistiche in chiave culturale ed etica.

In ogni Oratorio, poi, accanto all’attività scolastica e ca­techistica, si istituiva sempre una ‘Biblioteca circolante’ co­stituita da ‘una piccola scelta di libri utili ed ameni da di­stribuirsi ai giovani, che desiderano, e che fanno sperare di fa­re qualche profitto’. Più tardi, specialmente con lo sviluppo del Movimento Cattolico, vi si collocarono anche giornali, perio­dici e collane di Amene letture.

La cura e l’attenzione per il primo inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, che caratterizzava gli albori dell’Oratorio di Don Bosco, continuò ad essere una preoccupazione tipica dell’Oratorio festivo, in forme diverse, fino a tempi non molto remoti. Il compito di ‘trovar lavoro’ e verificarne le condizio­ni, fu presto affidato da Don Bosco a gruppi di laici, chiamati nel primitivo Regolamento ‘Patroni o Protettori’, e in seguito svolto dai Cooperatori Salesiani i quali, ogni domenica ‘prima che gli allievi si rechino alle rispettive famiglie […], si fanno a ricercar quelli che non avessero lavoro e procurano di collocarli presso qualche onesto padrone’. Spesso, negli Ora­tori dei grandi centri, a cavallo tra i due secoli, l’attività si istituzionalizzò in appositi ‘Uffizi di Collocamento’, collegati con le Unioni Operaie Cattoliche locali.

L’interessamento per il posto di lavoro e per una qualifica­zione professionale, che ha dato vita ai laboratori e alle scuole professionali salesiane, si è sviluppato in Don Bosco anche in linea morale e religiosa, con una vera spiritualità del lavoro e dei lavoratori.

*Il progetto oratoriano di Don Bosco si caratterizza, infine, per una spiccata attenzione non solo ai bisogni, ma anche ai gu­sti, alle preferenze, ai valori immediatamente percepiti dai gio­vani e dalle classi popolari. Il clima di cordiale amicizia, la convivenza familiare, il rapporto paterno e fraterno, le feste religiose rallegrate dalla corale in chiesa e dalla banda in cor­tile, le processioni, i divertimenti popolareschi con fuochi d’artificio, le farse e i drammi, i canti allegri sul far della sera, le rumorose scampagnate-pellegrinaggio con merenda sui pra­ti… richiamavano ai ragazzi il calore dell’ambiente familiare e paesano. Le stesse ‘devozioni’, alcune tematiche religiose ed etiche privilegiate e soprattutto il linguaggio usato nei contat­ti personali, nelle conversazioni di gruppo, nelle istruzioni re­ligiose, poggiavano su una base comune che rendeva l’intesa imme­diata e la proposta educativo-pastorale significativa.

2.2. Elementi di metodo

Don Bosco, nella sua ricca attività di educatore e di pasto­re dei giovani, ha elaborato un sistema educativo, un ‘metodo’ pedagogico-pastorale molto articolato. Elenchiamo gli aspetti me­todologici che ci sembrano scaturire immediatamente dall’espe­rienza dell’Oratorio.

2.2.1. L’impegno di Don Bosco e dei collaboratori. L’attenzione so­ciologica e pedagogica rivolta all’Oratorio non deve farci dimen­ticare l’ispirazione di fondo, senza la quale ogni rappresenta­zione è ridotta o tradita. Il nucleo pulsante è laspiritualità di Don Bosco, la sua esperienza del divino, l’adesione generosa e senza limiti ad una vocazione che lo cala nel tessuto della sto­ria come missionario dei giovani. Egli si sente chiamato da Dio e questa consapevolezza lo determina a consacrarsi senza riserve, a mettere le proprie doti, il proprio tempo, l’esistenza intera a servizio della missione educativa e pastorale. Senza questo at­teggiamento l’Oratorio non sarebbe mai nato o non avrebbe potuto essere quello che è stato.

Dall’analisi storica dei fatti e degli enunciati ‘sembra do­versi ricavare, al di là dei “principi”, la forza di una testi­monianza, colta nelle sue origini e nei suoi sviluppi: una espe­rienza che è a sua volta sintesi vitale in Don Bosco di vocazione religiosa, di passione e autentica benevolenza, di carità, di grazia, non scompagnate da intelligenza e da eccezionali capacità organizzative e di aggregazione’. L’Oratorio, come Don Bosco lo ha vissuto e insegnato, non è costituito principalmente da strutture e iniziative: è innanzitutto un atteggiamento interio­re, spirituale e psicologico, un’ascesi, da cui scaturiscono ze­lo, pazienza, costanza, spirito di sacrificio e ogni altra risor­sa necessaria.

Per ‘fare’ l’Oratorio si richiede una dedizione totale, sen­za dilettantismi, un coinvolgimento globale.

A questo spirito attinsero i discepoli e i giovani collabo­ratori del Santo. Don Michele Rua disse un giorno a un salesiano che inviava per iniziare un Oratorio: ‘Colà non v’è nulla, neppu­re il terreno e il locale per radunare i giovani, ma l’Oratorio festivo è in te: se sei vero figlio di Don Bosco, troverai bene dove poterlo piantare e far crescere in albero magnifico e ricco di bei frutti’.

2.2.2. Amore dimostrato e percepito come supremo principio pedagogi­co. Descrivendo il suo sistema educativo Don Bosco afferma: ‘Que­sto sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra l’amorevolezza’; e ancora: ‘La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di S. Paolo che dice: Charitas  benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia su­stinet. La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo’.

L’amorevolezza sta al centro di tutto, è sinonimo di carità e di affetto, e si specifica nella personalità e nell’opera del Santo per una particolare nota di calore, per il suo essere ‘amo­re dimostrato’: in atteggiamenti di confidenza e familiarità, in apprezzamento sincero delle cose che i giovani amano, delle loro giuste richieste. Un tale amore, se percepito, spazza via ogni ostacolo e costituisce un canale privilegiato di educazione e di proposta di valori, perché parla il linguaggio del cuore e con­quista i cuori dei giovani.

Questo tratto è la caratteristica di tutte le opere di Don Bosco, ma più che altrove essa costituisce il vincolo insostitui­bile dell’Oratorio: come amore dalle forti motivazioni morali, religiose e sociali, ma anche tradotto in un clima di ‘umana e tangibile amorevolezza, carità che appare, si manifesta e diventa così mezzo umano di attrazione e di conquista’.

Il principio ispiratore e unificatore della carità educativa suggerisce, poi, ed alimenta, una serie di scelte metodologiche, alle quali si è già in parte accennato in quanto strettamente correlate all’identità stessa dell’Oratorio.

*Pedagogia dell’accoglienza e della presenza. La persona del ragazzo è accolta e amata com’è e per quel che è, con i suoi li­miti e le sue potenzialità, ed è valorizzata. Il saluto, il dia­logo cordiale, la condivisione del gioco e dei problemi quotidia­ni, la capacità di ascolto, la disponibilità paziente ad ogni ri­chiesta: sono atteggiamenti in cui si concretizza l’accogliente carità. Nell’Oratorio festivo questo avviene anche con la costan­te presenza di Don Bosco e dei collaboratori in mezzo ai giovani, particolarmente nei momenti di ricreazione. ‘Famigliarità con i giovani specialmente in ricreazione – insegna il Santo –. Senza famigliarità non si dimostra l’amore e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza […]. Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il maestro della famigliarità. Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello. Se uno è visto solo predicare dal pulpito si dirà che fa ne più ne meno del proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola di uno che ama’.

*Pedagogia familiare e di ambiente. L’Oratorio, nato come ca­sa per chi era solo e abbandonato, conservò il carattere di gran­de famiglia. L’amorevolezza crea ambienti sereni, un’atmosfera di immediata confidenza tra i giovani e gli educatori, di amicizia tra i giovani stessi, tra le diverse fasce di età, di solidarietà tra tutti.

I punti forti  della comunità oratoriana erano il ‘diretto­re’ e i collaboratori, adulti e giovani. Don Bosco direttore dell’Oratorio non fu solo un organizzatore, ma soprattutto colui che conosceva i giovani personalmente, con i loro problemi, e sa­peva parlare al loro cuore. I collaboratori adulti (ecclesiastici e laici) e giovani erano scelti con cura per le loro doti perso­nali, la maturità umana e il livello di esemplarità e di vita spirituale; avevano la responsabilità di determinate attività ed insieme il compito di arricchire l’ambiente  con presenze signi­ficative e amichevoli.

Tutto l’Oratorio diventa così ambiente educativo, veicolo di valori, clima di crescita. Un ambiente che ‘parla’ ai giovani at­traverso una molteplicità di linguaggi: non solo, quindi, quello verbale, della catechesi e dell’esortazione omiletica, ma quello della comunicazione affettiva che sa mettersi in sintonia con i vari codici linguistici preferiti dai giovani.

Lo stile di famiglia diventa anche struttura, definita orga­nizzazione di rapporti e di ruoli. I Regolamenti stilati da Don Bosco ci dimostrano che ‘la pedagogia dell’amorevolezza non è de­bole, tenera, approssimativa, ma forte, ordinata, disciplinata, formatrice di uomini seri e di cristiani di carattere’.

*Pedagogia del coinvolgimento e della responsabilizzazione. Nella comunità oratoriana i giovani non sono trattati da semplici fruitori di iniziative proposte dagli educatori. Essi costitui­scono una componente principale, sono stimolati alla partecipa­zione attiva sia nella costruzione della propria personalità, sia nella costruzione dell’ambiente. Don Bosco sa che i giovani sono i migliori educatori dei loro coetanei. In ogni attività ed àmbi­to, dalla chiesa al cortile, dalla formazione all’espressione, sono tutti coinvolti attivamente e responsabilizzati progressiva­mente: giochi per tutte le età e abilità fisiche, ruoli diversi­ficati nella preghiera e nella liturgia (cantori, chierichetti, incaricati dei libri, sacrestani), uffici facili e impegnativi distribuiti e coordinati. Ognuno, dal più piccolo al più grande, si sente valorizzato. Altre responsabilità, condivise con i più maturi, sono di carattere più confidenziale: accostare i più ti­midi, inserire quelli che si emarginano, correggere o recuperare i ‘discoli’ con l’amicizia, arrivare là dove il sacerdote non può o non è accolto. Il cammino di coinvolgimento non vuole escludere alcuno, e si adatta alle capacità dei singoli, ma porta i più do­tati ad una crescente tensione missionaria e spirituale. Don Bo­sco non teme di proporre anche mete ambiziose: l’impegno sociale-apostolico e la santità.

*Pedagogia della festa e della gioia. – E’ uno degli elementi più vistosi dell’Oratorio, a cui si è già accennato più volte. Dal punto di vista metodologico notiamo che, nella mente e nella prassi di Don Bosco, la festa e le attività espressive ad essa connesse non sono lasciate allo spontaneismo e all’improvvisazio­ne. Le feste sono accuratamente dislocate lungo tutto l’anno ora­toriano come tappe di un cammino formativo. La preparazione remo­ta comporta settimane e mesi di lavoro serio per tutte le compo­nenti oratoriane; quella prossima valorizza gli stimoli spiritua­li, morali e catechistici. A Valdocco la musica vocale e strumen­tale, ad esempio, veniva curata con prove settimanali, affidata a maestri ben preparati, e portava i giovani a livelli di qualità notevoli. Così anche la recitazione, che si proponeva di ‘ralle­grare, educare ed istruire’, non si limitava allo spontanei­smo creativo e alla semplicità popolaresca, pur senza escluderli; si trattava di una vera scuola di recitazione, occasione di cul­tura e di elevazione morale, con la scelta di buoni autori, un ventaglio di proposte dal genere storico a quello didascalico e classico, e il rigore della messa in scena.

I ritiri, le confessioni, le novene e i tridui che prepara­vano le feste – sapientemente dosati con le attività ricreative e formative – costituivano un costante stimolo spirituale.

La pedagogia della gioia, inoltre, stimolò Don Bosco ad ac­cumulare un repertorio vastissimo di giochi e attività ricreati­ve. ‘Ogni domenica una novità’ – si diceva nel vecchio Oratorio salesiano – per rendere vivace l’ambiente, stimolare la parteci­pazione, coinvolgere emotivamente e psicologicamente i giovani.

*Pedagogia di massa e di gruppi. Il carattere popolare e mis­sionario dell’Oratorio di Don Bosco, la scelta preferenziale dei giovani poveri, ne fanno uno spazio di convocazione più ampio della comune pastorale giovanile di parrocchia o di associazione. Fin dai primi anni l’Oratorio di Don Bosco si è sempre caratte­rizzato per la pedagogia e la pastorale di massa. Un lavoro dif­ficile, se si vogliono raggiungere risultati soddisfacenti. Don Bosco è riuscito con una presenza personale continua e diretta nella massa, con il coinvolgimento di tanti collaboratori, la suddivisione ordinata di compiti e ruoli, la formazione di un am­biente propositivo. Ma una delle strategie più efficaci è stata la creazione di gruppi ed associazioni, che gli ha permesso di offrire contenuti qualificati e maggiori stimoli di crescita ai più recettivi e, simultaneamente, trovare collaborazione efficace per l’animazione della massa e l’intensificazione dei rapporti. Le Compagnie non erano suddivisione per fasce d’età o gruppi di interesse, né i giovani erano tenuti ad inserirsi in alcuna di esse. Si trattava di proposte formative libere, riservate a po­chi, a quelli che potevano affrontare un cammino formativo più intenso e davano garanzie di efficace inserimento apostolico nell’ambiente.

La riuscita della proposta educativa dell’Oratorio di Don Bosco stava anche in questo indovinato equilibrio tra cura della grande massa e formazione di gruppi scelti.

ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Dalla rievocazione storica dell’Oratorio di Don Bosco posso­no scaturire considerazioni e interrogativi stimolanti per le no­stre scelte pastorali.

*Quella di Don Bosco è un’esperienza che si colloca in un de­terminato contesto storico e vuol rispondere a precisi bisogni religiosi, educativi e sociali. Tuttavia, oltre agli aspetti contin­genti, reca in sè, a livello di progetto e di metodo, ma anche di attività specifiche, fermenti di tale vitalità da permetterne un duttile adattamento ad ambienti e momenti storici diversi, con pari fecondità.

*Nel cammino storico della Chiesa, in particolare quella to­rinese, l’Oratorio ha costituito uno stimolante punto di riferi­mento per altre iniziative analoghe. Studiare l’esperienza orato­riana di Don Bosco significa, anche, approfondire un patrimonio comune e riscoprire l’impegno generoso e creativo delle genera­zioni che ci hanno preceduto.

*La globalità di proposte e la varietà di livelli in cui si articolava il progetto-Oratorio pone interrogativi sulla attuale frammentazione educativa e pastorale: cultura nella scuola, cate­chesi nella parrocchia, condivisione e partecipazione nelle asso­ciazioni, educazione nella famiglia, amicizia nel gruppetto, sport nella società sportiva…

*Anche la scelta dei destinatari privilegiati ci interpella. La categoria dei giovani ‘poveri e abbandonati’, infatti, è anda­ta sociologicamente, psicologicamente e religiosamente evolvendo­si, ma è rimasta in ogni tempo come problema e sfida per la Chie­sa e la società.

*Infine, l’ampia e coordinata collaborazione, in gradazioni di responsabilità e di intensità diverse, che Don Bosco ha saputo attuare con sacerdoti, laici e giovani, sollecita una seria ri­flessione sulla frammentarietà di intesa e di sforzi che sembra caratterizzare la nostra realtà ecclesiale.