Oratorio Centro Giovanile Salesiano
L’Oratorio non risulta soltanto un punto di riferimento importante all’interno dell’esperienza del Santo e della sua grande Famiglia: è stata un’opera che, per il suo vitale innervamento nella realtà ecclesiale e sociale torinese (poi anche nazionale, europea e mondiale)… ha inciso in modo significativo sui processi storici, sulla prassi pastorale, sulla mentalità e la cultura popolare. In particolare l’Oratorio di Don Bosco è…
L’Oratorio festivo è ritenuto da Don Bosco l’esperienza primordiale e carismatica, nucleo ispiratore e radice insopprimibile di tutte le realizzazioni successive; riferimento obbligatorio per le istituzioni religiose e educative da lui avviate.
Ma l’Oratorio non risulta soltanto un punto di riferimento importante all’interno dell’esperienza del Santo e della sua grande Famiglia: è stata un’opera che, per il suo vitale innervamento nella realtà ecclesiale e sociale torinese (poi anche nazionale, europea e mondiale), come e insieme ad altre iniziative, ha inciso in modo significativo sui processi storici, sulla prassi pastorale, sulla mentalità e la cultura popolare. In particolare l’Oratorio di Don Bosco è legato indiscutibilmente alla storia sociale e religiosa della nostra città.
Gli spunti che ci vengono dal sacerdote torinese, dalle sue proposte di soluzione agli inediti problemi educativi, pastorali e sociali posti dalla gioventù povera e abbandonata del suo tempo sono fortemente stimolanti per chi deve affrontare, pur in un altro contesto storico e culturale, sfide analoghe e diversissime.
La nostra rievocazione intende unicamente offrire le grandi linee del costruirsi ed evolversi dell’ esperienza oratoriana di Don Bosco e focalizzare alcuni aspetti qualificanti del suo progetto, senza la minima pretesa di esaurire un argomento sul quale si sono cimentati storici, pedagogisti e pastoralisti.
1. ORIGINI E SVILUPPO DELL’ORATORIO DI DON BOSCO
1.1. Trasformazioni demografiche e problema giovanile a Torino
1.1.1. L’epoca dell’arrivo di Don Bosco a Torino. Don Giovanni Bosco (1815-1888) approdò a Torino nel novembre 1841, all’età di ventisei anni, ordinato sacerdote da cinque mesi. La scelta dell’inserimento nel Convitto Ecclesiastico di S. Francesco d’Assisi, per una migliore qualificazione pastorale, era dovuta certamente all’amicizia con il compaesano Don Giuseppe Cafasso, direttore spirituale e formatore di sacerdoti, acuto precorritore delle inedite problematiche pastorali nelle quali si sarebbero imbattuti, in tempi prossimi, i giovani ecclesiastici. Si può anche supporre che la sua venuta a Torino sia stata manifestazione di una tendenza crescente di polarizzazione urbana da parte di gruppi disparati, anche di preti, in tempi nei quali la pressione demografica nel mondo contadino, la migliore distribuzione di clero nei paesi e sul territorio, e una rinnovata coscienza sociale, unita a reali problemi di sussistenza, determinavano presso le classi rurali e povere spinte ad emergere e maggiore mobilità geografica ed economica.
Nella capitale si stava verificando una promettente fioritura di iniziative imprenditoriali che uscivano dagli schemi delle vecchie strutture economiche e mettevano le basi di un rinnovato sviluppo, programmato e guidato da gruppi dirigenziali emergenti come quello che si sarebbe affermato intorno al conte di Cavour.
Nel decennio 1838-1848 la città di Torino subisce un aumento demografico di 20.000 unità; cifra considerevole se rapportata al numero totale di residenti (136.849 abitanti nel 1848). Negli anni successivi l’incremento sarà maggiore.
Le periferie di Borgo Dora, Vanchiglia e Porta Nuova assistono ad una prima ondata di espansione dell’edilizia, civile e manifatturiera, e all’insediamento numeroso e disordinato di famiglie (di artigiani, operai, manovali, carrettieri, lavandaie, piccoli commercianti, giornalieri, soprattutto manodopera non qualificata), sradicate da contesti geografici e culturali di origine diversa e suscettibili di lento o scarso inserimento nel tessuto civile ed ecclesiastico. Precarietà economica, ignoranza e miseria morale si ripercossero dolorosamente sulla vita sociale e religiosa della città, con espressioni di devianza e pericolosità sociale, di abbandono della pratica religiosa, di incuria educativa da parte di genitori assillati dalla preoccupazione per la sopravvivenza.
Di fronte ai tanti problemi, per i quali le strutture cittadine e diocesane tradizionali, prese alla sprovvista, si sentivano impotenti, si tentarono qua e là, privatamente, risposte di pronto intervento a carattere caritativo-assistenziale, episodiche e parziali. Nel frattempo, a vari livelli e in ristrette cerchie di persone più sensibili, si incominciava a dibattere, puntando l’attenzione sull’educazione e sull’istruzione popolare come vie privilegiate di soluzione.
Negli strati più giovani della popolazione le nefaste conseguenze apparivano con maggiore evidenza e drammaticità, essendo le fasce più consistenti numericamente; le statistiche, infatti, danno, per gli anni Quaranta e Cinquanta, una percentuale ondeggiante tra il 42% e il 40% di individui inferiori ai 20 anni. Tra i ceti popolari e infimi la miseria obbligava i genitori all’inserimento precoce dei bambini nel mondo del lavoro, in condizioni spesso disumane, nocive per lo sviluppo fisico e morale, di palese sfruttamento economico. Veniva così trascurata ogni forma elementare di istruzione culturale, civile e religiosa.
Ad aggravare il quadro sociale si aggiungeva una categoria di giovani (anche fanciulli) totalmente abbandonata, soggetta a più alto rischio, di cui le statistiche ufficiali, basate sul censimento della popolazione residente, non offrono elementi per una corretta valutazione numerica. Si trattava del flusso stagionale di manovalanza giovanile che raggiunse punte massime nel quindicennio 1840-1855. Fonti e autori del tempo parlano di ‘più migliaia’.
Quest’ultimo fenomeno preoccupava maggiormente per i pericoli morali e sociali di cui potevano essere vittime ragazzi privi di qualsiasi tutela e controllo. Alla domenica e nei giorni festivi quella multiforme massa giovanile invadeva strade, piazze e prati della periferia, offrendo agli occhi della popolazione un impressionante quadro di miseria, di ignoranza e di violenza.
1.1.2. La percezione della situazione da parte di Don Bosco. I giovani preti del Convitto Ecclesiastico venivano a contatto col problema giovanile nei suoi aspetti più drammatici quando, per il ministero del catechismo e delle confessioni, erano inviati dal Guala e dal Cafasso nelle carceri cittadine, pullulanti di giovani e di adolescenti, in conseguenza della politica prevalentemente repressiva con cui si affrontava la devianza e l’emarginazione.
Don Bosco, che appena giunto a Torino, si era visto circondare da ‘una schiera di giovanetti, che mi seguivano pei viali, per le piazze e nella stessa sacristia della chiesa dell’Istituto’,ne rimase sconvolto e si interrogò sul da farsi. Il contatto – sempre stimolato e favorito dai due direttori del Convitto – con istituzioni caritative tradizionali e nuove, come quelle dellaRegia Opera della Mendicità Istruita e gli istituti della marchesa Barolo, potè avere funzione di stimolo sull’animo del giovane sacerdote castelnovese, assommandosi alle esperienze giovanili di animazione catechistica, culturale e ricreativa, avvenute però in contesti ben diversi.
Molto di più, sul piano operativo, dovette contare l’amicizia e l’intesa con giovani sacerdoti, attenti agli stessi fenomeni e desiderosi di impegno operativo, come si potrà constatare negli anni successivi. Fra tutti risultò incoraggiante l’esperienza appena avviata da Don Giovanni Cocchi (1813-1895) nella parrocchia dell’Annunziata, in un apposito locale ‘ove ricoverava tutti i ragazzi che nei giorni festivi intervenivano ai catechismi […], coadiuvato da alcuni giovani ecclesiastici’. L’iniziativa, che avrebbe preso presto il nome di Oratorio dell’Angelo Custode in Vanchiglia, aveva lo scopo di ‘impedire il contatto con i cattivi compagni, e di inspirare in quei teneri cuori l’amore alla virtù, prodigando loro avvisi, ed ammonizioni salutari […] con dolci modi e affettuosa carità’: obiettivi congeniali con la mentalità, l’indole e la formazione di Don Bosco.
L’incontro casuale con Bartolomeo Garelli nella sacrestia di S. Francesco gli aprì presto una possibilità di limitata azione proprio con la categoria dei garzoni stagionali, più miseri dei ragazzi di borgo Vanchiglia perché senza famiglia e completamente sganciati da ogni appartenenza parrocchiale.
La situazione di giovani soli, poveri, sbandati, carcerati, le cause del loro progressivo abbrutimento, le soluzioni per il recupero e la prevenzione furono argomenti riflessi e dibattuti nella cerchia dei sacerdoti gravitanti attorno al Cafasso e al Cocchi. Scrisse Don Bosco nel 1862: ‘L’idea degli Oratori nacque dalla frequenza delle carceri di questa città. In questi luoghi di miseria spirituale e temporale trovavansi molti giovanetti sull’età fiorente, di ingegno svegliato, di cuore buono, capaci di formare la consolazione delle famiglie e l’onore della patria; e pure erano colà rinchiusi, avviliti, fatti l’obbrobrio della società. Ponderando attentamente le cagioni di quella sventura si poté conoscere che per lo più costoro erano infelici piuttosto per mancanza di educazione che per malvagità. Si notò inoltre che di mano in mano facevasi loro sentire la dignità dell’uomo, che è ragionevole e deve procacciarsi il pane della vita con oneste fatiche e non col ladroneccio; appena insomma facevasi risuonare il principio morale e religioso alla loro mente, provavano in cuore un piacere di cui non sapevansi dare ragione, ma che loro faceva desiderare di essere più buoni. Di fatto molti cangiavano condotta nel carcere stesso, altri usciti vivevano in modo da non doverci più essere tradotti.
Allora si confermò col fatto che questi giovanetti erano divenuti infelici per difetto d’istruzione morale e religiosa, e che questi due mezzi educativi erano quelli che potevano efficacemente cooperare a conservare buoni quando lo fossero ancora e di ridurre a far senno i discoli quando fossero usciti da que’ luoghi di punizione’.
Si trattava di una percezione di carattere prevalentemente pastorale e educativo, non tale, però, da sottovalutare elementi legati alla complessità sociale nella quale i giovani si trovavano innegabilmente immersi. Di fatto, sarà anche, e per certi aspetti massicciamente, su questo terreno che si evolverà la risposta operativa di Don Cocchi, di Don Bosco, del Murialdo e di altri preti torinesi. Non fu piccolo infatti il numero degli ecclesiastici che, per più anni, si trovarono solidarmente impegnati nell’opera degli Oratori, anche se non tutti con la stessa intensità.
1.1.3. Modello sacerdotale e spinte operative. La forte tensione operativa e la preoccupazione di offrire concrete risposte, di carattere spicciolo o di più ampio respiro, trovavano motivazioni nello stesso modello sacerdotale assimilato durante gli anni di formazione, rafforzato poi sia dalla letteratura pastorale e spirituale, sia da personaggi catalizzatori come il Cottolengo, il Guala e il Cafasso.
Il motivo dello ‘zelo’ pastorale, del ‘farsi tutto a tutti’, senza riguardi per se stesso, del ‘donarsi totalmente spinti dalla carità’ (Charitas Christi urget nos), nella convinzione che ‘il prete non va solo al cielo, non va solo all’inferno’, contribuì non poco ad alimentare l’impegno pastorale, caritativo, educativo nella parte più viva del clero torinese che avrebbe espresso personaggi tanto significativi e disseminato di iniziative e istituzioni feconde un ambiente sociale ed ecclesiale ben più vasto.
1.1.4. Scelte di campo: i giovani poveri e abbandonati; la via educativa. Don Bosco, assecondando l’inclinazione personale e seguendo una vocazione sempre meglio delineata, fin dai primi passi del suo servizio sacerdotale optò per la pastorale dei ragazzi e dei giovani, con preferenza per quelli soggetti a maggior povertà materiale e spirituale. La gioventù‘più abbandonata e pericolante’, quelli ‘che sono poveri, più abbandonati e più ignoranti […], perché hanno maggior bisogno di assistenza per tenersi sulla via dell’eterna salute’: espressioni che ritorneranno sempre più spesso negli scritti e nei discorsi di Don Bosco, fino agli ultimi giorni di vita, per indicare una scelta di campo netta.
Si trattò agli inizi di quella fascia, sempre più vasta, di migranti stagionali e di giovani lavoratori, trascurata dalla famiglia, che non veniva raggiunta o non voleva integrarsi nelle tradizionali strutture civili ed ecclesiastiche (parrocchie o altre forme religiose di aggregazione professionale).
Negli anni successivi, con la percezione progressiva della vastità del problema giovanile, le formule assumeranno un’estensione più articolata, ‘con il primato dell’aspetto economico-sociale-religioso, ma anche la progressiva inclusione di aspetti culturali, morali, pastorali, missionari’.
La sua opzione implicò, per la natura stessa dei destinatari, la scelta privilegiata della via educativa, accanto a quella più squisitamente pastorale, poiché gli permetteva una completa ed efficace azione di trasformazione interiore e di incidenza positiva ‘nello sviluppo e nella formazione delle facoltà umane, tali da rendere ciascuno capace abitualmente di decisioni libere e personali, in generoso impegno di vita, individuale e sociale, morale e religioso’.
1.2. L’Oratorio come proposta di soluzione
1.2.1. Modelli ispiratori e opzioni personali. Il catechismo a Bartolomeo Garelli (8 dicembre 1841) aprì a Don Bosco uno spiraglio per fare qualcosa di concreto a favore di quelle moltitudini di ragazzi vaganti, che avrebbe voluto curare, ma non poteva ‘per mancanza di locale’. La sua condizione di prete studente permettava un impegno solo parziale, né la semplice simpatia dimostrata sulla strada avrebbe avuto effetti di qualche consistenza, egli lo sapeva. Il catechismo si rivelò l’avvio più naturale e indovinato della sua opera, grazie al fortunato innesto su attività già esistenti al Convitto. Infatti ‘il sig. D. Caffasso [sic] – scrive Don Bosco nel 1854 – già da parecchi anni in tempo estivo faceva ogni domenica un catechismo a’ garzoni muratori in una stanzetta annessa alla sacrestia di detta chiesa [S. Francesco d’Assisi]. La gravezza delle occupazioni di questo sacerdote gli fecero interrompere questo esercizio a lui tanto gradito. Io lo ripigliai sul finire del 1841, e cominciai col radunare nel medesimo luogo due giovani adulti, gravemente bisognosi di religiosa istruzione. A costoro se ne unirono altri e nel decorso del 1842 il numero montò a venti e talora a venticinque’.
Dunque, l’ispirazione immediata fu il Cafasso con i suoi catechismi agli immigrati più grandicelli, bisognosi di cure personalizzate; ma certamente anche Don Cocchi servì da stimolo.
Col passare del tempo Don Bosco capirà che un servizio pastorale a quel tipo di giovani imponeva non solo dedizione, ma anche riflessione, chiarezza di obiettivi e di metodo. Si preoccuperà allora di studiare la ricca tradizione cattolica in campo educativo e pastorale: la secolare esperienza della Dottrina Cristiana, l’opera e il metodo di S. Filippo Neri, di S. Carlo Borromeo, la tradizione collegiale dei Gesuiti e dei Barnabiti e l’esperienza pedagogica popolare dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Prenderà anche contatti con iniziative contemporanee lavorandovi personalmente (opere della marchesa Barolo), o visitandole (Oratorio di S. Luigi a Milano), o studiandone i regolamenti. Soprattutto, si sentirà in sintonia ideale e operativa con il gruppo di educatori e pedagogisti raccolti attorno alla rivista torinese “L’Educatore primario” e con la vivace schiera di sacerdoti diocesani affratellati dagli stessi ideali di cura della gioventù povera.
Don Bosco seppe cioè captare stimoli, elementi metodologici e iniziative diverse, modellando il suo intervento in una sintesi originale, secondo i bisogni dei giovani cui si rivolgeva e la propria genialità o carisma.
Caratteristica del suo Oratorio fu, ad esempio, il fatto di non essere né parrocchiale né interparrocchiale; una struttura flessibile, libera da schemi ripartitivi rigidi, più atta ad un’opera di mediazione tra chiesa, società urbana e fasce popolari giovanili che non s’adattavano all’inquadramento parrocchiale. Non fu però un’antitesi alla parrocchia. Don Bosco pensò l’Oratorio come contributo ‘per una possibile ristrutturazione della pastorale urbana e regionale’, in risposta alle situazioni createsi a Torino con il moto migratorio e lo scadimento dei valori religiosi connessi alla struttura parrocchiale.
In effetti, l’Oratorio potrebbe essere visto come un ammodernamento di esperienze ecclesiali del passato, riplasmate secondo i bisogni dei tempi: si pensi ad esempio ai Terzi Ordini o alle medioevali Confraternite di categorie professionali, ancor vive a Torino sotto il nome di ‘Congregazioni’ o ‘Compagnie’. Analoghe iniziative, anche queste sganciate da suddivisioni parrocchiali, si stavano muovendo o si sarebbero mosse sul terreno caritativo e socio-religioso, quali le conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli e le Società Operaie Cattoliche, confluendo a fine secolo, insieme ad un pullulare di altre forme associative, nell’Opera dei Congressi, e contribuendo notevolmente alla rivitalizzazione della stessa struttura parrocchiale.
Altre opzioni personali di Don Bosco riguardano il metodo, lo stile educativo e pastorale, l’impostazione dell’ambiente, delle iniziative e dei rapporti, la concezione dell’Oratorio come struttura aperta quanto al tempo (tutta la giornata festiva, non solo alcune ore) e quanto alle persone (tutti i giovani, non solo una determinata categoria): aspetti che riprenderemo più oltre.
1.2.2. Le prime esperienze alla ricerca di una formula. Nel triennio trascorso al Convitto (1841-1844) Don Bosco, che incominciava ad accogliere ‘scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratori e altri che venivano di lontani paesi’, incentrò la sua domenicale assemblea giovanile intorno alla catechesi (un semplice catechismo adatto al livello dei suoi poveri giovani) e alla pratica dei doveri religiosi, secondo uno schema molto semplice: ‘L’Oratorio si faceva così. Ogni giorno festivo si dava comodità di accostarsi ai santi sacramenti della confessione e comunione, ma un sabato ed una domenica al mese era stabilita per compiere questo religioso dovere. La sera, ad un’ora determinata, si cantava una lode, si faceva il catechismo, poi un esempio colla distribuzione di qualche cosa, ora a tutti, ora tirata a sorte’.
L’utilizzo del premio rispondeva a motivi pedagogici, ma era anche uno strumento spicciolo di beneficenza usato, insieme ad altre misure di immediato soccorso, per risolvere più urgenti necessità. Lo aiutavano in questo il teologo Guala e Don Cafasso i quali, come scrive Don Bosco, ‘talvolta mi diedero mezzi per vestire alcuni che erano in maggior bisogno, e dar pane ad altri per più settimane, fino a tanto che col lavoro potessero guadagnarsene da sé’.
Le periodiche solennità liturgiche o patronali fecero constatare al Santo il valore pedagogico della festa – così radicata nel gusto popolare e giovanile – , momento privilegiato per creare aggregazione, familiarità ed amicizia, per facilitare la comunicazione di valori educativi e religiosi. Questo strumento, potenziato e organizzato, insieme ad altre manifestazioni altrettanto amate dai giovani, come la musica e il canto, sarebbe divenuto uno dei momenti centrali del metodo pastorale-educativo sviluppato in seguito.
Durante la settimana Don Bosco impiegava i momenti liberi dallo studio e dagli impegni di convittore nel conoscere di persona le condizioni di vita e di lavoro dei suoi allievi. Scrive: ‘Lungo la settimana andava a visitarli in mezzo ai loro lavori nelle officine, nelle fabbriche. Tal cosa produceva grande consolazione ai giovanetti, che vedevano un loro amico prendersi cura di loro; faceva piacere ai padroni, che tenevano volentieri sotto la loro disciplina giovanetti assistiti lungo la settimana[…]. Ogni sabato mi recava nelle carceri colle saccoccie piene ora di tabacco, ora di frutti, ora di pagnottelle, sempre nell’oggetto di coltivare i giovanetti che avessero la disgrazia di essere colà condotti, assisterli, rendermeli amici’.
Egli desiderava per tutti quei giovani un lavoro onesto, in condizioni di sicurezza e di rispetto, poiché lo riteneva un bisogno vitale, la migliore garanzia per il futuro. Per formazione ed esperienza sapeva che l’ozio e le cattive compagnie costituiscono i pericoli peggiori per i giovani abbandonati, e si dava da fare affinché tutti fossero utilmente e dignitosamente impiegati lungo la settimana.
Altra intuizione pedagogica di questo periodo fu quella di cercare la collaborazione di giovani ben formati. La loro presenza aveva un’efficacia particolare, perché, mentre prestavano un aiuto notevole nell’animazione del gruppo e permettevano di moltiplicare le iniziative, si rivelavano modelli pedagogicamente incisivi per ragazzi abituati ad ambienti e a modi di vita ben diversi.
La situazione di prete studente e la limitatezza di spazi nel Convitto non gli permettevano di più: nel 1842 il numero dei ragazzi raggiunti si aggirava sulla ventina e nel 1843 salì a cinquanta. Non era molto, tuttavia la cura pastorale e il rapporto di assistenza e di azione personalizzata gli permise di constatare miglioramenti tali da indurlo a desiderare un’azione più continuata e organizzata, a raggi sempre più vasti.
1.2.3. L’Oratorio ‘itinerante’. Innanzitutto era necessario reperire spazi meno limitanti di quelli del Convitto, dove ‘il silenzio e la tranquillità che esigevano le pubbliche funzioni di quella frequentatissima chiesa’ non si accordavano con le esigenze vitali di un gruppo giovanile. ‘Perché l’istruzione religiosa – annota il Santo – trattiene i giovani per qualche spazio di tempo, dopo è mestieri qualche sfogo, o passeggiando o trastullandosi’. L’occasione gli si presentò quando, terminati gli studi al Convitto, egli fu assunto come cappellano delle opere della marchesa Barolo (Rifugio e Ospedaletto) collocate a Valdocco, nella zona in cui prati, orti e sterpaglie segnavano il margine estremo della periferia. Il consenso della caritatevole e coraggiosa signora e l’aiuto del teologo Don Giovanni Borel (1801-1873), direttore responsabile del Rifugio, gli permisero di tenere i catechismi domenicali prima nell’appartamento dei cappellani, poi in alcuni locali dell’Ospedaletto di S. Filomena, che non era ancora stato inaugurato. Durante la settimana il Santo svolgeva ministero sacerdotale e si prestava come insegnante per le ragazze abbandonate e ‘traviate’ accolte nel Rifugio.
Il Borel fu per Don Bosco un appoggio decisivo: lo affiancò nel lavoro tra i ragazzi e lo sostenne con la sua consumata esperienza pastorale; lo mise in contatto con una cerchia più vasta di ecclesiastici e di laici sensibili ai problemi popolari e giovanili; lo introdusse negli ambienti più aperti e disponibili della nobiltà e della borghesia. Insieme delinearono il progetto di un’azione più regolare e ordinata. Si consultarono coll’arcivescovo il quale riconobbe la necessità di un’opera pastorale indipendente dalle parrocchie, per la qualità dei destinatari, e li incoraggiò a proseguire. Nacque così, anche a livello istituzionale, l’Oratorio di S. Francesco di Sales, con cappella propria, ricavata negli ambienti provvisoriamente concessi nell’Ospedaletto e benedetta l’8 dicembre 1844. La scelta del vescovo savoiardo come titolare e patrono dell’Oratorio fu dettata soprattutto da motivazioni pastorali e pedagogiche, esigendo tale ministero ‘grande calma e mansuetudine’: la carità pastorale, l’amore educativo vennero assunti a principio di metodo.
Da qual momento il numero dei giovani frequentatori aumentò considerevolmente, attirati dagli spazi liberi dei prati circostanti, raccolti e curati in una cappella tutta per loro. Accanto a Don Bosco e al Borel si affiancò nel lavoro diretto anche Don Sebastiano Pacchiotti (1806-1884), altro cappellano dell’Opera Barolo; si aggiungeranno presto, come catechisti, altri sacerdoti e laici.
‘Nella cappella annessa all’edifizio dell’Ospedaletto di S. Filomena l’Oratorio prendeva ottimo avviamento. Nei giorni festivi intervenivano in folla i giovanetti per fare la loro confessione e comunione. Dopo la messa tenevasi breve spiegazione del Vangelo. Dopo mezzodì catechismo, canto di laudi sacre, breve istruzione, litanie lauretane e benedizione. Nei varii intervalli i giovani erano trattenuti in piacevole ricreazione con trastulli diversi. Ciò facevasi nel piccolo viale che tuttora esiste tra il monastero delle Maddalene e la via pubblica’.
Nell’estate successiva, dovendosi inaugurare l’Ospedaletto, la marchesa si vide costretta a sfrattare la cappella e ad interdire ogni attività all’interno dell’edificio. Incominciò la fase itinerante dell’Oratorio. Dal giugno 1845 all’aprile 1846, di domenica in domenica, ci si dava appuntamento presso varie chiese della periferia (Madonna del Pilone, Monte dei Cappuccini, Sassi, Crocetta, Madonna di Campagna…). Per alcuni mesi (luglio-dicembre) si ottenne dal municipio la possibilità di usufruire, in tempi delimitati, della cappella di S. Martino ai Molassi e dello spiazzo antistante (oggi piazza P. Albera). Tuttavia la massa crescente e disordinata dei giovani e la natura delle attività oratoriane rendevano urgente il reperimento di locali riservati e dislocati in modo da non recare disturbo: cosa difficile sia per problemi finanziari, sia per la scarsa offerta, in anni di forte sviluppo demografico.
Nell’inverno 1845-1846 il Borel e Don Bosco riuscirono ad affittare tre stanze in casa Moretta, non lontano dal Rifugio, per i catechismi festivi e serali. Era una soluzione inadeguata, ma permise di avviare altre attività. Don Bosco, infatti, era convinto, come molti in quegli anni, che l’istruzione costituisse uno ‘strumento essenziale per illuminare la mente e orientare la ragione’; ne vedeva anche l’utilità pratica quotidiana, economica, e quindi la potenzialità di sviluppo sociale. Nei quattro mesi trascorsi in casa Moretta si tentò un primo esperimento di scuola serale per l’alfabetizzazione di alcuni giovani lavoratori, con l’elaborazione di un metodo didattico più duttile del tradizionale. I risultati furono soddisfacenti.
1.2.4. La fase di strutturazione e organizzazione. L’inaugurazione della cappella nella tettoia Pinardi (12 aprile 1846), l’affitto progressivo di tutta la casa adiacente (dieci stanzette) e del cortile circostante, segnano la conclusione della fase sperimentale e l’inizio del consolidamento istituzionale, pastorale e educativo, dell’Oratorio di S. Francesco di Sales. Don Bosco, appoggiato dall’Arcivescovo, decise di dedicarsi totalmente all’opera e lasciò gli impegni di cappellano nel Rifugio e nell’Ospedaletto. Il passo segna una svolta radicale, coraggiosa: si buttò allo sbaraglio, senza alcuna risorsa economica, sfidando i rischi di un lavoro di frontiera e le riserve, fortemente critiche, di molti confratelli e di autorità civili.
Tra 1846 e 1848 l’Oratorio di Don Bosco assunse una fisionomia caratteristica, che lo distingue da altre istituzioni simili. Innanzitutto il Santo si preoccupò di consolidare attività ed esperienze già avviate precedentemente. Il numero dei ragazzi, aumentato considerevolmente negli ultimi mesi, superava le 400 presenze domenicali e arrivò in determinate circostanze oltre 600. Era necessario raggiungere un giusto equilibrio tra libera partecipazione, spontaneismo e disciplina; suddividere i giovani in classi non troppo numerose per il catechismo; regolare fin nei dettagli i giochi del cortile, per occupare tutti ed evitar disordini; trovare ritmi e interventi bilanciati nella pratica religiosa e sacramentale; portare a maturazione intuizioni precedenti, ricche di potenzialità, come la scuola di canto, le scuole serali e festive di alfabetizzazione e di istruzione basilare, i catechismi quaresimali per i giovani lavoratori…
Superato lo scoglio degli spazi e dei locali, si affacciano urgenti altri problemi: il necessario reclutamento di collaboratori sempre più numerosi; la cura e il rapporto personalizzato attraverso la presenza in cortile e i contatti infrasettimanali negli ambienti di lavoro; la ricerca di attrezzature e di sussidi.
Pregio di Don Bosco fu l’aver saputo coinvolgere nella collaborazione sacerdoti, chierici, giovani studenti e laici appartenenti alle più diverse classi sociali. Tra gli stessi ragazzi dell’Oratorio egli individuò i più intraprendenti e fidati ai quali demandare attività e settori specifici. I sui appelli alla cooperazione, rivolti a privati e a istituzioni pubbliche, sia attraverso la corrispondenza e la stampa, sia con iniziative originali (come le grandi lotterie), sortirono effetti di un’ampia sensibilizzazione ai problemi giovanili, oltre ché, naturalmente, sussidi economici.
1.2.5. Obiettivi, metodi, àmbiti, attività. Soprattutto Don Bosco si diede alla organizzazione interna dell’Oratorio. A livello esperienziale, più che teorico, mise a punto obiettivi, metodi, ambiti, attività e ritmi. Stilò un Regolamento essenziale, arricchito e articolato col tempo. Individuò momenti privilegiati dell’anno (le feste liturgiche, la quaresima, il mese di maggio, il mese di S. Luigi, i ritiri mensili, gli esercizi spirituali) attorno ai quali polarizzare l’attenzione dei ragazzi, che servissero come tappe di un itinerario di crescita spirituale. Diede molto spazio al canto corale, ricreativo e sacro; introdusse la musica strumentale bandistica, con appositi corsi. Potenziò le scuole festive e serali, regolarizzandole e collegandole ad analoghe esperienze che nascevano in città. Soprattutto, valorizzò e arricchì i mezzi ricreativi, come i divertimenti del cortile (giochi per tutti, gioco educativo, gioco di massa), la ginnastica (sull’esempio di D. Cocchi) e la recitazione nella sue varie espressioni.
Allo scopo di curare la crescita spirituale dei giovani più sensibili e di impegnarli quali animatori ed apostoli dei compagni, istituì la ‘Compagnia di S. Luigi Gonzaga’, con proprio regolamento e riunioni formative settimanali. Da questa esperienza germineranno in seguito la Compagnia dell’Immacolata, quella del Ss. Sacramento con il ‘piccolo clero’, la Compagnia di S. Giuseppe, più attente agli aspetti religiosi; la Società di Mutuo Soccorso tra i giovani artigiani e la Conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli, più protese verso l’azione caritativa e sociale.
Il ritmo di preghiera e di celebrazioni liturgiche fu strutturato progressivamente, con flessibilità, adattandolo al gusto giovanile e popolare, riducendo all’essenziale le pratiche comunitarie (in confronto agli usi del tempo) e lasciando alla libertà di ciascuno una varietà di proposte spicciole per la pietà individuale.
L’Oratorio, per il suo vitale innervamento nella realtà socio-religiosa, sotto la pressione delle domande giovanili e delle urgenze, diveniva per Don Bosco, progressivamente, una stimolante fucina di iniziative e di esperienze. Da cosa nasceva cosa.
*Innazitutto la necessità di pubblicazioni adatte alle esigenze e al livello dei giovani, redatte in linguaggio piano e popolare: libri di preghiera, sussidi per la pietà personale,manuali per la scuola, libretti di letture amene ed istruttive a sfondo storico, sintesi catechistiche e dottrinali facili, commediole e teatri… Don Bosco si rivelò fecondo scrittore popolare e suscitatore di iniziative editoriali.
*La grande affluenza di giovani da ogni parte della città stimolò il gruppo di sacerdoti dell’Oratorio alla fondazione di un secondo centro, a Porta Nuova, intitolato a S. Luigi (8 dicembre 1847) e alla riapertura (1849) dell’Oratorio dell’Angelo Custode di D. Cocchi, soppresso dall’Arcivescovo per problemi legati agli eventi del 1848. Le periferie più misere di Torino venivano così munite di centri aggregativi e missionari per una più ordinata azione educativa e pastorale.
*Si presentò presto (1847), anche a Valdocco, la necessità di offrire accoglienza ai ragazzi senza famiglia, come già stava iniziando a fare D. Cocchi. Nacque una piccola comunità giovanile, gestita in forma familiare, che con il trascorrere degli anni si sarebbe consistentemente potenziata, tanto da richiedere ampliamenti edilizi progressivi. L’opera, della ‘Casa annessa all’Oratorio di S. Francesco di Sales’, è stata motivata da Don Bosco in questi termini: ‘Fra i giovani che frequentano questi oratori se ne trovarono di quelli talmente poveri ed abbandonati che per loro riusciva quasi inutile ogni sollecitudine senza un sito dove potessero essere provveduti di alloggio, vitto e vestito. A questo bisogno si studiò di provvedere colla casa annessa […] e si cominciarono a raccogliere alcuni dei più poveri. In quel tempo essi andavano a lavorare per la città restituendosi alla casa dell’Oratorio per mangiare e dormire’.
*L’importanza, per la redenzione giovanile e il riscatto sociale, dell’inserimento in una seria vita di lavoro e, di contro, le precarie condizioni degli apprendisti, spesso sfruttati, con scarso profitto nella loro qualificazione professionale, suggerirono a Don Bosco l’idea di curare direttamente anche questo aspetto. Dapprima cercò mastri artigiani onesti ed affidò loro i suoi giovani, stilando anche appositi contratti di formazione-lavoro, poi verificò la necessità di istituire laboratori artiginali nell’Oratorio stesso, che si trasformassero in vere scuole professionali (sarti, calzolai, legatori, falegnami, tipografi, fabbri-ferrai).
*L’incuria educativa in cui erano lasciati i fanciulli delle classi più misere, non ancora impegnati nel lavoro, stimolò l’apertura nell’Oratorio di Valdocco e in quello di Porta Nuova di una scuola elementare diurna, a vantaggio di ‘que’ giovanetti che o per essere male vestiti o per non potersi abituare ad una regolare disciplina’ non erano accettati nelle pubbliche scuole o ne erano espulsi; fanciulli ‘per lo più orfani o trascurati dai loro parenti [che] anche in tenera età scorrono le vie e le piazze rissando, bestemmiando e rubacchiando’.
*Nei ceti più poveri, erano molti i ragazzi dotati intellettualmente e moralmente, ma impossibilitati a mettere a frutto le loro qualità per la povertà economica. Don Bosco maturò allora il progetto di accogliere e favorire anche giovani che‘avessero tale condotta morale e tale attitudine allo studio da lasciar non dubbia speranza d’onorevole riuscita in una carriera scientifica’. In Valdocco il gruppo degli ‘studenti’ crebbe di anno in anno: prima frequentavano una scuola della città, poi (dal 1854), quando qualcuno di loro finì gli studi e si rese disponibile, Don Bosco istituì un ginnasio proprio, per una più efficace incidenza educativa, maggior libertà didattica e metodologica, particolare attenzione alla cura di vocazioni ecclesiastiche.
*Durante la crisi sociale e politica del 1848-1849 gli Oratori torinesi subirono i contraccolpi del clima di euforia patriottica e di generale disorientamento ideologico. Anche nel gruppo dei preti oratoriani si manifestarono tensioni, divisioni e conseguenti divergenze di scelte educative. Don Bosco, che aveva già maturato una sua linea pedagogica e pastorale, preferì garantirsi totale autonomia, appoggiandosi direttamente sull’arcivescovo. Nominato direttore responsabile degli Oratori di Valdocco, Porta Nuova e Vanchiglia, puntò sulla collaborazione di alcuni ecclesiastici e laici scelti, con i quali si sentiva in maggior sintonia ideale, e riconobbe la necessità di formarsi aiutanti stabili tra i giovani stessi, cresciuti nel suo spirito e nel suo sistema, come pure tra il gruppo dei chierici ai quali dava ospitalità, dopo la chiusura del seminario cittadino (durata dal 1848 al 1862).
Giovani e chierici formarono un gruppetto affiatato attorno a Don Bosco. Il confronto sui temi educativi e spirituali, lo scambio di idee, avveniva in settimanali ‘conferenze’: ne derivò unitarietà di intenti, omogeneità di scelte, unanimità di metodo e coordinamento di iniziative. Lentamente maturò nella mente del Santo l’idea di una ‘Società’ o ‘Congregazione’ costituita da ecclesiastici e da laici consacrati all’educazione della gioventù. Nel 1854 si costituì il primo raggruppamento, privato e segreto, di ‘Salesiani’ (da S. Francesco di Sales); nel dicembre 1859 la ‘Società Salesiana ‘ era ufficialmente fondata.
*Da quel punto in poi scaturirono iniziative sempre più vaste, anche molto lontane come struttura dal primitivo Oratorio festivo, di cui costituivano uno sviluppo, ma ad esso sempre vicine come spirito e finalità.
1.2.6. Gli sviluppi e le gemmazioni nel tempo. Oratorio e realtà territoriale, sociale ed ecclesiale. L’Oratorio festivo, però, continuava il suo cammino e la sua funzione, accanto alla ‘Casa annessa’, ai laboratori e alle scuole interne. Anzi, rimase sempre l’attività più cara al cuore di Don Bosco, la più fresca e dinamica delle sue istituzioni, la più vicina al sentire popolare e ai gusti dei giovani. Egli, negli anni Sessanta, separò le due opere perché ormai avevano ritmi ed esigenze diverse, affidando la direzione dell’Oratorio ad un suo collaboratore fidato. Le attività, i ritmi, il clima libero e festoso continuarono ad essere gli stessi dei primi tempi.
I destinatari privilegiati rimasero i ragazzi di ceto popolare e i giovani lavoratori del borgo e della periferia, anche se la categoria degli stagionali si era esaurita alla fine degli anni Cinquanta. Gli studenti erano presenti in qualità di catechisti, animatori, insegnanti; il loro numero aumenterà progressivamente soprattutto dopo il 1874 con la soppressione, nelle scuole pubbliche, delle ‘Congregazioni degli studenti’, cioè delle riunioni per la catechesi scolastica e le pratiche religiose. Per loro si costituiranno ‘Scuole di Religione’ e appositi ‘Circoli’, accanto alle associazioni degli Operai.
Con l’introduzione a livello legislativo dell’obbligatorietà dell’istruzione elementare e l’aumento di presenza degli studenti, l’Oratorio tendeva sempre più ad estendere la sua attività all’intera settimana: catechesi, scuola serale per i lavoratori o ‘doposcuola’ per i ragazzi, filodrammatica, musica bandistica, corali, sport organizzato e gioco libero…, divennero attività quotidiane.
Tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento, per impulso di Don Michele Rua (1837-1910), primo successore di Don Bosco, in un contesto di grosse tensioni sociali e di vivaci iniziative cattoliche, l’Oratorio salesiano visse una stagione di nuova fioritura, con una più marcata valenza sociale. In certi quartieri popolari delle grandi città, generazioni intere crescevano nei cortili dell’Oratorio salesiano e spesso continuavano a frequentarlo anche in età adulta. Per molti di loro l’Oratorio, da centro di attrazione ricreativa, si era trasformato in ambiente vitale, luogo di formazione umana e cristiana, efficace mediazione ecclesiale. Il Movimento Cattolico, le Unioni Operaie, le associazioni di ispirazione cattolica a carattere sociale, caritativo e anche politico alimentarono le loro fila tra i giovani educati negli Oratori, salesiani e non. L’Oratorio si rivelò anche un fecondo vivaio di vocazioni ecclesiastiche.
Per la reciprocità di influsso tra opera salesiana e territorio, spesso si è registrato il caso di Oratori che hanno modificato il volto umano di interi quartieri o periferie cittadine. Si è verificata, allora, ‘la grande rivoluzione di Don Bosco’ – come è stato scritto con una certa enfasi – un progetto che, per la sua diffusione e dinamicità, ha investito ‘tutta la società italiana dell’era industriale’.
Nella fase di espansione della Congregazione Salesiana Don Bosco e i successori si preoccuparono sempre di far sorgere, se possibile, un Oratorio festivo accanto ad ogni collegio, nella convinzione che ‘Chi voglia rigenerare una città od un paese non ha altro mezzo più potente: bisogna che cominci coll’aprire un buon Oratorio festivo’. Non solo, ma propagandarono l’Oratorio come patrimonio comune della chiesa italiana, di facile innesto in diversi contesti culturali, sociali ed ecclesiali. Cercarono di diffonderlo particolarmente tra il clero diocesano, aiutati in questo dal Movimento Cattolico. Scriveva, ad esempio, ai parroci, nel 1895, un attivo propagatore della necessità di ‘azione cattolica’: ‘Con quanta poca fatica si impianta, volendo sul serio, un oratorio festivo, la prima opera, la più urgente e la più necessaria della parrocchia, perché prepara la nuova generazione; quella che se ne tira dietro altre quattro o cinque; che, prima di essere, ha già dato risultati benefici […]. Quanto al cortile pei giovani, è la cosa più facile del mondo: la canonica non ne mancherà; almeno non mancherà un giardinetto o un orto […]: [caro reverendo] scalzi le rape, e pianti le altalene. Con una cinquantina di lire si adatta per oratorio qualunque locale; ingrandendosi l’opera il Signore farà trovare di meglio e di più adatto. Tutto sta a cominciare al più presto, senza esitazioni. Adunati i fanciulli sotto la sorveglianza dei suoi amici [tre o quattro adulti ben scelti], sarà facile trovare il modo di far loro un po’ di dottrina, conducendoli in parrocchia, a squadre, dopo le funzioni, da soli, a porte chiuse; e, dopo il catechismo farà molto bene una predichina corta, ma adatta a loro, a loro soli, a cui seguirà la benedizione. Eppoi di nuovo in cortile fino a sera. E’ vero ch’ella avrà doppia funzione, che non avrà un momento di riposo in tutta la domenica […]. Ma, mio caro amico, se Gesù Cristo avesse badato alla fatica, io sarei ancora ebreo e lei non sarebbe prete. Del resto, l’ha fatto Don Bosco, l’hanno fatto tanti’.
Un Congresso sugli Oratori festivi si tenne a Torino nel 1902, per interessamento di Don Michele Rua, frequentatore dell’Oratorio fin dal 1846. Vi furono coinvolte forze cattoliche rappresentative di ogni settore: diocesi, congregazioni, associazioni. Lo scopo era quello di mettere esperienze a confronto e di stimolare la fondazione di Oratori accanto a tutte le parrocchie e agli stessi seminari diocesani. Si raccomandava: ‘Nella determinazione del locale per l’Oratorio festivo si curi ch’esso sia comodo, attraente, igienico, proporzionato al numero dei giovani, e soprattutto spazioso, affrontando generosamente la spesa necessaria con una pubblica sottoscrizione del clero, delle autorità e de’signori, od anche conazioni permanenti o temporanee, oppure in quelle maniere suggerite dalle circostanze locali e di tempo, facendo pur partecipare in questa benefica opera persone d’idee differenti dalle nostre […]. Nelle popolose città […] si accordino tra loro i Parroci e, dopo d’aver studiato l’importantissimo problema dell’istruzione e dell’educazione della gioventù, vengano nella pratica deliberazione di erigere uno o più Oratori festivi, ne’ punti principali della città; e, non potendoli dirigere essi stessi, o per mezzo di un altro sacerdote, si rivolgano a qualche Congregazione’.
L’esperienza oratoriana di Don Bosco, attuata in forme caratteristiche e originali, ritornava a beneficio dell’intera comunità ecclesiale, stimolo ad una pastorale giovanile più attenta, fermento di rinnovazione delle stesse strutture parrocchiali, fuori dai cui schemi era nata e cresciuta.
2. IL PROGETTO-ORATORIO DI DON BOSCO
2.1. Programma originale di espressione giovanile, evangelizzazione e animazione culturale.
2.1.1. Progetto operativo. L’Oratorio di Don Bosco non si qualifica per le sole attività, ma per l’insieme di obiettivi, metodo e attività, più un certo clima-ambiente che gli fornisce coloriture caratterizzanti.
Le definizioni – quelle date occasionalmente da Don Bosco o da altri – risultano inadeguate a descrivere realtà e funzione di questa ‘dinamica e imprevedibile aggregazione giovanile’, che nell’arco di centoquarant’anni, in contesti mutati, si è rivelata duttile, feconda e viva. Le ragioni stanno nelle radici storiche del progetto, nel suo essere nato dalla vita e non a tavolino, nella cultura e nella personalità stessa di Don Bosco.
Pietro Braido, per indicare la totalità degli interventi messi in atto dal Santo a favore della salvezza della gioventù, preferisce usare l’espressione ‘progetto operativo‘, formula sintetica che permette di definire la realtà storica nella sua completezza, che non è solo pastorale o educativa o spirituale. Infatti Don Bosco si è mosso costantemente e coscientemente su due piani: sul piano dei fatti, innanzitutto, senza rinunciare al piano delle idee, di quadri storici di riferimento. Uomo attivo e pragmatico, egli è pervenuto di fatto a elaborare il suo progetto-Oratorio, mai, però, rinunciando a un quadro di riferimento ideale, antropologico e teologico, come ‘supporto, più o meno riflesso, coerente e esauriente del progetto’.
La convinzione dell’urgenza operativa fece da molla a tutta la vita di Don Bosco: ‘siamo in tempi in cui bisogna operare[…] – egli afferma – Il mondo attuale vuole vedere le opere, vuole vedere il clero lavorare a istruire e a educare la gioventù povera e abbandonata […]. E questo è l’unico mezzo per salvare la povera gioventù istruendola nella religione e quindi di cristianizzare la società’.‘Ora i tempi sono cangiati, e quindi oltre al fervente pregare, conviene lavorare ed indefessamente lavorare, se non vogliamo assistere alla intera rovina della presente generazione’.
L’operatività intelligente costituisce un primo elemento caratterizzante dell’Oratorio di Don Bosco.
2.1.2. Progetto in divenire, nella fedeltà alla storia. Il progetto-Oratorio coincide, dunque, con la vita stessa di Don Bosco, con la sua multiforme e infaticabile azione; non è la rappresentazione di un copione predisposto, come ci potrebbe far credere una certa agiografia. E’ stato un crescere continuo di iniziative e di esperienze, stimolato da urgenze e bisogni, da spinte interiori ed esterne, religiose e sociali: ‘una formazione “storica”, faticosamente costruita nell’azione quotidiana’.
E’ questa la seconda nota che specifica il progetto: fedeltà al contesto storico in cui si opera e alla realtà dei giovani destinatari.
Tale attenzione ha conferito all’Oratorio di Don Bosco una carica dinamica tale da renderlo, ‘al di là di talune rigidità contingenti, […] “sistema aperto”, pro-attivo e non re-attivo; capace, quindi, di mantenere l’equilibrio interno di forma e di ordine e, nello stesso tempo, di crescere in complessità e differenziazione di parti verso equilibri più avanzati, che consentono un rapporto transazionale con l’ambiente sempre più intenso ed arricchente’.
Quando nella storia si è dimenticata tale attenzione per rinchiudersi in formule rigide, in schemi ripetitivi, l’Oratorio ha perso la sua freschezza ed è andato incontro a una irrimediabile decadenza e conseguente sterilità.
2.1.3. Progetto globale di intervento. La terza nota caratterizzante dell’Oratorio, così come Don Bosco lo ha realizzato, è la globalità di intervento. Il fatto di trovarsi di fronte a giovani totalmente bisognosi lo ha spinto a offrire loro tutto ciò di cui necessitavano ‘per vivere con pienezza la loro esistenza umana e cristiana: fede operosa, grazia, vestito, vitto, alloggio, lavoro, studio, tempo libero, gioia, cameratismo, amicizia, partecipazione, attivismo, inserimento sociale’. Il Santo, di fatto,‘ha realizzato e prospettato con chiarezza le linee di un piano di azione, di un metodo e di uno “stile”, caratterizzati dalla tensione a promuovere la massima espansione umana e religiosa, individuale e sociale, dei giovani, con la cura di salvaguardare, insieme alla totalità, la gerarchia dei valori: dalla sopravvivenza fisica all’esistenza di Dio, dalla cultura al tempo libero, dall’integrità morale alla disponibilità comunitaria’.
Anche quando le istituzioni si sono diversificate (collegi, scuole professionali, missioni), Don Bosco ha voluto che l’Oratorio festivo mantenesse la sua globalità di proposta, la sua unità e articolazione originale. Questa sola, infatti, evita la settorializzazione, l’ipertrofia di un tratto a scapito degli altri. Quando ciò avviene si assiste alla perdita dell’identità originale e‘nascono così gli Oratori “ludici-sportivi”, e, per reazione, quelli “catechistici”, quelli “associazionistici”, quelli “movimentisti di quartiere”, quelli che si propongono “casa della comunità”’.
Indichiamo le coordinate essenziali che conferiscono al progetto le caratteristiche di una proposta globale.
*La ‘salvezza’ della gioventù è il cuore, lo scopo principale che sostiene tutta l’azione di Don Bosco, il quale ‘costruisce se stesso, logora se stesso e si getta allo sbaraglio perché si sente nella trama di Dio salvatore’.
La salvezza è primariamente quella eterna, la ‘salvezza dell’anima’; ma queste ‘anime’ da salvare erano i suoi poveri ragazzi, vittime della miseria, dell’ignoranza, del male. Impegnarsi per la loro salvezza significò battersi a livello educativo, pastorale e sociale. Don Bosco si sentì chiamato per questo, ne percepì l’urgenza e si slanciò in un’azione intensamente missionaria. Non si accontentava che al suo Oratorio arrivassero i giovani per attrazione spontanea, si preoccupava di raggiungerli e incontrarli dove essi si trovavano fisicamente e psicologicamente. ‘Il movimento è sempre verso le frontiere e i margini religiosi, sociali e umani, con lo sguardo rivolto a coloro che le istituzioni regolari non prendono in considerazione, senza escludere, anzi invitando gli altri. [L’Oratorio] E’ per tutti, non rivolto agli speciali dal punto di vista dell’eccellenza o della devianza, ma al povero comune nel quale sono vive le risorse per accogliere una proposta di recupero e crescita’.
Dalla tensione salvifica globale scaturisce il tratto della missionarietà religiosa e sociale, uno dei più marcati e nitidi del primo Oratorio di Don Bosco.
‘Uno dei mezzi principali per accrescere il numero dei suoi ragazzi – scrive il suo biografo – fu quello di andarli a cercare sulle piazze, nelle strade, lungo i viali […]. Passando innanzi alle officine nell’ora del riposo o della colazione non si peritava di avanzarsi dove scorgeva in crocchio molti di quei giovani apprendisti, e dopo averli cordialmente salutati, domandava di qual paese fossero, come si chiamasse il loro parroco, se fossero ancor vivi i genitori, quanto tempo era che avessero cominciato ad apprendere quel mestiere […]. La parte vicino a Porta Palazzo brulicava di merciai ambulanti, di venditori di zolfanelli, di lustrascarpe, di spazzacamini, di mozzi di stalla, di spacciatori di foglietti, di fasservizi ai negozianti sul mercato[…]. Non avendo appresa alcuna professione, crescevano amanti dell’ozio e del giuoco, dati al furto di borse e fazzoletti […]. Don Bosco adunque tutte le mattine recavasi su questa piazza, ove egli aveva già fatta conoscenza con un certo numero di que’ giovani, fin da quando l’Oratorio festivo era stato per qualche mese trasferito dal Rifugio alla chiesa dei Molini. Incominciò a intrattenersi con qualcuno di que’ garzoni prima col pretesto di chiedere qualche indicazione di via, o di farsi lucidare le scarpe; e quindi allorché passava vicino ad essi, li salutava […]. A poco a poco li conobbe tutti per nome e parlava loro colla dimestichezza che un padre usa coi propri figli, della necessità di guadagnarsi il paradiso’.
* L’espressione che più ricorre negli scritti e nelle parole di Don Bosco per descrivere l’obiettivo della sua azione educativa e pastorale è ‘buoni cristiani e onesti cittadini’, che negli ultimi decenni della sua vita si va specificando in riferimento all’ampliato orizzonte della sua opera, protesa alla rigenerazione della società mediante l’educazione, la prevenzione e il recupero dei giovani abbandonati: ‘Se una mano benefica li strappa per tempo dai pericoli, li avvia a una carriera onorata, e li forma alla virtù per mezzo della religione, essi si fanno capaci di giovare a sé e agli altri, diventano buoni cristiani, savii cittadini, per divenire un giorno fortunati abitatori del cielo’.
Dunque si tratta di un modello di uomo e di cristiano che è sintesi del credente tradizionale e del cittadino dell’ordine nuovo, in cui la centralità della fede cristiana e del trascendente vanno uniti ad una schietta valutazione delle realtà temporali e dei valori secolari. Spiccano, poi, tra gli altri tratti fisionomici quelli della gioia, dell’umanità cordiale, della correttezza morale, della forte tensione spirituale.
Per contro il modello di società che Don Bosco lascia trasparire è quello vetusto della societas christiana, in cui dominava ‘l’ideale dello stato confessionale e una società stratificata e ordinata, dove fiorivano il rispetto per le autorità, l’amore alla fatica, il diritto di proprietà; e le dottrine cattoliche e morali e il santo timor di Dio costituivano il principio fondante della fraterna e pacifica convivenza di tutti’. E’ questo l’aspetto più storicamente condizionato e caduco che, tuttavia, esercita un’intensa funzione ispiratrice e, d’altra parte, per il riferimento costante di Don Bosco alla realtà concreta, viene praticamente superato in nuove visioni pragmatiche.
Quanto al modello di Chiesa, Don Bosco condivise in tutto l’ecclesiologia del suo tempo. Alla Chiesa, Cattolica, Apostolica, Romana, egli aderì con senso di rispetto, docile obbedienza e amore. La sentì, nella sua realtà divina, nelle sue istituzioni, nella sua gerarchia, nei suoi sacramenti, unica arca di salvezza, luogo in cui si opera una continua esplosione del divino, dove fioriscono le virtù, la santità e i miracoli. Salvare la gioventù significava per lui spalancare le porte della Chiesa: portare i giovani alla Chiesa o avvicinare la Chiesa ai giovani, quando le istituzioni risultassero distanti e rigide.
Il suo Oratorio divenne per molti ragazzi luogo di esperienza e di mediazione ecclesiale.
*L’ambiente oratoriano fu per Don Bosco, innanzitutto, luogo di educazione alla fede. Nel suo programma, dunque, la dimensione religiosa mantiene il primato, ne costituisce il fondamento e l’orizzonte in cui operare per la gioventù. La religione è elemento educativo inderogabile, come fine e come mezzo per la sussistenza del senso etico e l’attuazione della salvezza eterna e temporale.
Le celebrazioni liturgiche, i sacramenti, la preghiera comunitaria e quella personale, hanno lo scopo di coltivare nei giovani la dimensione trascendente, infondere in essi il timore di Dio, educarli ad una abituale vita di grazia e di unione amorosa con il Signore da cui scaturiscano motivazioni interiori, energie di impegno operativo e tensione spirituale.
‘Ma la partecipazione personale alla vita religiosa e la maturazione nell’impegno morale suppongono fede illuminata, consapevole, impossibile senza una sistematica opera di istruzione e di riflessione. Molti sono gli strumenti che a questo scopo mette in atto Don Bosco: la catechesi storica e dottrinale, la cultura religiosa sotto forma di vera scuola, la predicazione (in genere didascalica, semplice e concreta), la meditazione e la lettura spirituale. Trovano pure spazio nella pedagogia della fede esplicite forme di testimonianza pubblica e di massa: le solenni celebrazioni religiose, la partecipazione organizzata ai riti liturgici di gruppo particolari (Piccolo Clero, Cantori, Compagnie), pellegrinaggi a chiese e Santuari’.
*Don Bosco curò con attenzione, non solo strumentale, altri elementi che conferiscono all’Oratorio una fisionomia caratteristica di centro giovanile vivo e attraente, ispirato da un umanesimo cristiano mirante all’educazione integrale dei giovani, alla loro formazione morale e culturale. Le attività ricreative di ogni genere, le associazioni, l’espressione teatrale e musicale, le escursioni, le convivenze estive, le varie forme di scuola, sono esperienze che solo apparentemente stanno in secondo piano rispetto alla formazione cristiana e alla maturità spirituale: per il santo educatore costituiscono espressioni talmente qualificanti da superare la mera funzione metodologica e strumentale.[51]
Questa preoccupazione di integralità formativa, perseguita attraverso attività diverse e complementari, venne tradotta da Don Bosco in facili formule sintetiche che proponeva ai suoi giovani o utilizzava nel far conoscere lo scopo della sua opera: ‘allegria, studio, pietà’; ‘sanità, sapienza, santità’; ‘lavoro, religione, virtù’; ‘lavoro, istruzione, umanità’.
*L’importanza della vocazione personale, da scoprire e da seguire, è un altro dei temi sottolineato con più forza: ognuno, insegna Don Bosco, è chiamato ad occupare un posto ben preciso nella storia; per questo ha ricevuto da Dio doti, attitudini e opportunità di cui deve rendere conto. Nell’Oratorio il giovane viene educato all’urgenza della scelta vocazionale, e aiutato a maturarla con la direzione spirituale e la progressiva assunzione di responsabilità negli ambienti di vita quotidiana. La cura vocazionale, infatti, avviene attraverso il coinvolgimento nell’azione pastorale in compiti diversificati, dalla catechesi alla vigilanza sulle attrezzature di gioco, dalla scuola all’interessamento per i compagni più bisognosi, all’animazione delle ricreazioni. A questo scopo sono anche mirate le varie associazioni oratoriane.
*Dalla fondazione fin verso gli anni Venti del nostro secolo l’Oratorio fu frequentato prevalentemente da ragazzi e giovani lavoratori o figli di operai. Il servizio di istruzione tramite le scuole diurne elementari e quelle serali ‘di commercio e di musica’ u una necessità per molti decenni e conferì all’Oratorio un’importante funzione di animazione culturale e di formazione morale. Infatti veniva raccomandato: ‘Si insegni pure la scienza e la letteratura, ma non si dimentichi mai l’essenziale, che è l’istruzione religiosa e la pratica della virtù’.
A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, verso la fine della vita di Don Bosco, vennero inserite nell’Oratorio anche le ‘Scuole di Religione’, per gli studenti, e la ‘Classe adulti’ per i giovani operai e vari Circoli Giovanili. In essi venivano approfondite tematiche catechistiche in chiave culturale ed etica.
In ogni Oratorio, poi, accanto all’attività scolastica e catechistica, si istituiva sempre una ‘Biblioteca circolante’ costituita da ‘una piccola scelta di libri utili ed ameni da distribuirsi ai giovani, che desiderano, e che fanno sperare di fare qualche profitto’. Più tardi, specialmente con lo sviluppo del Movimento Cattolico, vi si collocarono anche giornali, periodici e collane di Amene letture.
La cura e l’attenzione per il primo inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, che caratterizzava gli albori dell’Oratorio di Don Bosco, continuò ad essere una preoccupazione tipica dell’Oratorio festivo, in forme diverse, fino a tempi non molto remoti. Il compito di ‘trovar lavoro’ e verificarne le condizioni, fu presto affidato da Don Bosco a gruppi di laici, chiamati nel primitivo Regolamento ‘Patroni o Protettori’, e in seguito svolto dai Cooperatori Salesiani i quali, ogni domenica ‘prima che gli allievi si rechino alle rispettive famiglie […], si fanno a ricercar quelli che non avessero lavoro e procurano di collocarli presso qualche onesto padrone’. Spesso, negli Oratori dei grandi centri, a cavallo tra i due secoli, l’attività si istituzionalizzò in appositi ‘Uffizi di Collocamento’, collegati con le Unioni Operaie Cattoliche locali.
L’interessamento per il posto di lavoro e per una qualificazione professionale, che ha dato vita ai laboratori e alle scuole professionali salesiane, si è sviluppato in Don Bosco anche in linea morale e religiosa, con una vera spiritualità del lavoro e dei lavoratori.
*Il progetto oratoriano di Don Bosco si caratterizza, infine, per una spiccata attenzione non solo ai bisogni, ma anche ai gusti, alle preferenze, ai valori immediatamente percepiti dai giovani e dalle classi popolari. Il clima di cordiale amicizia, la convivenza familiare, il rapporto paterno e fraterno, le feste religiose rallegrate dalla corale in chiesa e dalla banda in cortile, le processioni, i divertimenti popolareschi con fuochi d’artificio, le farse e i drammi, i canti allegri sul far della sera, le rumorose scampagnate-pellegrinaggio con merenda sui prati… richiamavano ai ragazzi il calore dell’ambiente familiare e paesano. Le stesse ‘devozioni’, alcune tematiche religiose ed etiche privilegiate e soprattutto il linguaggio usato nei contatti personali, nelle conversazioni di gruppo, nelle istruzioni religiose, poggiavano su una base comune che rendeva l’intesa immediata e la proposta educativo-pastorale significativa.
2.2. Elementi di metodo
Don Bosco, nella sua ricca attività di educatore e di pastore dei giovani, ha elaborato un sistema educativo, un ‘metodo’ pedagogico-pastorale molto articolato. Elenchiamo gli aspetti metodologici che ci sembrano scaturire immediatamente dall’esperienza dell’Oratorio.
2.2.1. L’impegno di Don Bosco e dei collaboratori. L’attenzione sociologica e pedagogica rivolta all’Oratorio non deve farci dimenticare l’ispirazione di fondo, senza la quale ogni rappresentazione è ridotta o tradita. Il nucleo pulsante è laspiritualità di Don Bosco, la sua esperienza del divino, l’adesione generosa e senza limiti ad una vocazione che lo cala nel tessuto della storia come missionario dei giovani. Egli si sente chiamato da Dio e questa consapevolezza lo determina a consacrarsi senza riserve, a mettere le proprie doti, il proprio tempo, l’esistenza intera a servizio della missione educativa e pastorale. Senza questo atteggiamento l’Oratorio non sarebbe mai nato o non avrebbe potuto essere quello che è stato.
Dall’analisi storica dei fatti e degli enunciati ‘sembra doversi ricavare, al di là dei “principi”, la forza di una testimonianza, colta nelle sue origini e nei suoi sviluppi: una esperienza che è a sua volta sintesi vitale in Don Bosco di vocazione religiosa, di passione e autentica benevolenza, di carità, di grazia, non scompagnate da intelligenza e da eccezionali capacità organizzative e di aggregazione’. L’Oratorio, come Don Bosco lo ha vissuto e insegnato, non è costituito principalmente da strutture e iniziative: è innanzitutto un atteggiamento interiore, spirituale e psicologico, un’ascesi, da cui scaturiscono zelo, pazienza, costanza, spirito di sacrificio e ogni altra risorsa necessaria.
Per ‘fare’ l’Oratorio si richiede una dedizione totale, senza dilettantismi, un coinvolgimento globale.
A questo spirito attinsero i discepoli e i giovani collaboratori del Santo. Don Michele Rua disse un giorno a un salesiano che inviava per iniziare un Oratorio: ‘Colà non v’è nulla, neppure il terreno e il locale per radunare i giovani, ma l’Oratorio festivo è in te: se sei vero figlio di Don Bosco, troverai bene dove poterlo piantare e far crescere in albero magnifico e ricco di bei frutti’.
2.2.2. Amore dimostrato e percepito come supremo principio pedagogico. Descrivendo il suo sistema educativo Don Bosco afferma: ‘Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra l’amorevolezza’; e ancora: ‘La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di S. Paolo che dice: Charitas benigna est, patiens est; omnia suffert, omnia sperat, omnia sustinet. La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo’.
L’amorevolezza sta al centro di tutto, è sinonimo di carità e di affetto, e si specifica nella personalità e nell’opera del Santo per una particolare nota di calore, per il suo essere ‘amore dimostrato’: in atteggiamenti di confidenza e familiarità, in apprezzamento sincero delle cose che i giovani amano, delle loro giuste richieste. Un tale amore, se percepito, spazza via ogni ostacolo e costituisce un canale privilegiato di educazione e di proposta di valori, perché parla il linguaggio del cuore e conquista i cuori dei giovani.
Questo tratto è la caratteristica di tutte le opere di Don Bosco, ma più che altrove essa costituisce il vincolo insostituibile dell’Oratorio: come amore dalle forti motivazioni morali, religiose e sociali, ma anche tradotto in un clima di ‘umana e tangibile amorevolezza, carità che appare, si manifesta e diventa così mezzo umano di attrazione e di conquista’.
Il principio ispiratore e unificatore della carità educativa suggerisce, poi, ed alimenta, una serie di scelte metodologiche, alle quali si è già in parte accennato in quanto strettamente correlate all’identità stessa dell’Oratorio.
*Pedagogia dell’accoglienza e della presenza. La persona del ragazzo è accolta e amata com’è e per quel che è, con i suoi limiti e le sue potenzialità, ed è valorizzata. Il saluto, il dialogo cordiale, la condivisione del gioco e dei problemi quotidiani, la capacità di ascolto, la disponibilità paziente ad ogni richiesta: sono atteggiamenti in cui si concretizza l’accogliente carità. Nell’Oratorio festivo questo avviene anche con la costante presenza di Don Bosco e dei collaboratori in mezzo ai giovani, particolarmente nei momenti di ricreazione. ‘Famigliarità con i giovani specialmente in ricreazione – insegna il Santo –. Senza famigliarità non si dimostra l’amore e senza questa dimostrazione non vi può essere confidenza […]. Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il maestro della famigliarità. Il maestro visto solo in cattedra è maestro e non più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello. Se uno è visto solo predicare dal pulpito si dirà che fa ne più ne meno del proprio dovere, ma se dice una parola in ricreazione è la parola di uno che ama’.
*Pedagogia familiare e di ambiente. L’Oratorio, nato come casa per chi era solo e abbandonato, conservò il carattere di grande famiglia. L’amorevolezza crea ambienti sereni, un’atmosfera di immediata confidenza tra i giovani e gli educatori, di amicizia tra i giovani stessi, tra le diverse fasce di età, di solidarietà tra tutti.
I punti forti della comunità oratoriana erano il ‘direttore’ e i collaboratori, adulti e giovani. Don Bosco direttore dell’Oratorio non fu solo un organizzatore, ma soprattutto colui che conosceva i giovani personalmente, con i loro problemi, e sapeva parlare al loro cuore. I collaboratori adulti (ecclesiastici e laici) e giovani erano scelti con cura per le loro doti personali, la maturità umana e il livello di esemplarità e di vita spirituale; avevano la responsabilità di determinate attività ed insieme il compito di arricchire l’ambiente con presenze significative e amichevoli.
Tutto l’Oratorio diventa così ambiente educativo, veicolo di valori, clima di crescita. Un ambiente che ‘parla’ ai giovani attraverso una molteplicità di linguaggi: non solo, quindi, quello verbale, della catechesi e dell’esortazione omiletica, ma quello della comunicazione affettiva che sa mettersi in sintonia con i vari codici linguistici preferiti dai giovani.
Lo stile di famiglia diventa anche struttura, definita organizzazione di rapporti e di ruoli. I Regolamenti stilati da Don Bosco ci dimostrano che ‘la pedagogia dell’amorevolezza non è debole, tenera, approssimativa, ma forte, ordinata, disciplinata, formatrice di uomini seri e di cristiani di carattere’.
*Pedagogia del coinvolgimento e della responsabilizzazione. Nella comunità oratoriana i giovani non sono trattati da semplici fruitori di iniziative proposte dagli educatori. Essi costituiscono una componente principale, sono stimolati alla partecipazione attiva sia nella costruzione della propria personalità, sia nella costruzione dell’ambiente. Don Bosco sa che i giovani sono i migliori educatori dei loro coetanei. In ogni attività ed àmbito, dalla chiesa al cortile, dalla formazione all’espressione, sono tutti coinvolti attivamente e responsabilizzati progressivamente: giochi per tutte le età e abilità fisiche, ruoli diversificati nella preghiera e nella liturgia (cantori, chierichetti, incaricati dei libri, sacrestani), uffici facili e impegnativi distribuiti e coordinati. Ognuno, dal più piccolo al più grande, si sente valorizzato. Altre responsabilità, condivise con i più maturi, sono di carattere più confidenziale: accostare i più timidi, inserire quelli che si emarginano, correggere o recuperare i ‘discoli’ con l’amicizia, arrivare là dove il sacerdote non può o non è accolto. Il cammino di coinvolgimento non vuole escludere alcuno, e si adatta alle capacità dei singoli, ma porta i più dotati ad una crescente tensione missionaria e spirituale. Don Bosco non teme di proporre anche mete ambiziose: l’impegno sociale-apostolico e la santità.
*Pedagogia della festa e della gioia. – E’ uno degli elementi più vistosi dell’Oratorio, a cui si è già accennato più volte. Dal punto di vista metodologico notiamo che, nella mente e nella prassi di Don Bosco, la festa e le attività espressive ad essa connesse non sono lasciate allo spontaneismo e all’improvvisazione. Le feste sono accuratamente dislocate lungo tutto l’anno oratoriano come tappe di un cammino formativo. La preparazione remota comporta settimane e mesi di lavoro serio per tutte le componenti oratoriane; quella prossima valorizza gli stimoli spirituali, morali e catechistici. A Valdocco la musica vocale e strumentale, ad esempio, veniva curata con prove settimanali, affidata a maestri ben preparati, e portava i giovani a livelli di qualità notevoli. Così anche la recitazione, che si proponeva di ‘rallegrare, educare ed istruire’, non si limitava allo spontaneismo creativo e alla semplicità popolaresca, pur senza escluderli; si trattava di una vera scuola di recitazione, occasione di cultura e di elevazione morale, con la scelta di buoni autori, un ventaglio di proposte dal genere storico a quello didascalico e classico, e il rigore della messa in scena.
I ritiri, le confessioni, le novene e i tridui che preparavano le feste – sapientemente dosati con le attività ricreative e formative – costituivano un costante stimolo spirituale.
La pedagogia della gioia, inoltre, stimolò Don Bosco ad accumulare un repertorio vastissimo di giochi e attività ricreative. ‘Ogni domenica una novità’ – si diceva nel vecchio Oratorio salesiano – per rendere vivace l’ambiente, stimolare la partecipazione, coinvolgere emotivamente e psicologicamente i giovani.
*Pedagogia di massa e di gruppi. Il carattere popolare e missionario dell’Oratorio di Don Bosco, la scelta preferenziale dei giovani poveri, ne fanno uno spazio di convocazione più ampio della comune pastorale giovanile di parrocchia o di associazione. Fin dai primi anni l’Oratorio di Don Bosco si è sempre caratterizzato per la pedagogia e la pastorale di massa. Un lavoro difficile, se si vogliono raggiungere risultati soddisfacenti. Don Bosco è riuscito con una presenza personale continua e diretta nella massa, con il coinvolgimento di tanti collaboratori, la suddivisione ordinata di compiti e ruoli, la formazione di un ambiente propositivo. Ma una delle strategie più efficaci è stata la creazione di gruppi ed associazioni, che gli ha permesso di offrire contenuti qualificati e maggiori stimoli di crescita ai più recettivi e, simultaneamente, trovare collaborazione efficace per l’animazione della massa e l’intensificazione dei rapporti. Le Compagnie non erano suddivisione per fasce d’età o gruppi di interesse, né i giovani erano tenuti ad inserirsi in alcuna di esse. Si trattava di proposte formative libere, riservate a pochi, a quelli che potevano affrontare un cammino formativo più intenso e davano garanzie di efficace inserimento apostolico nell’ambiente.
La riuscita della proposta educativa dell’Oratorio di Don Bosco stava anche in questo indovinato equilibrio tra cura della grande massa e formazione di gruppi scelti.
ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Dalla rievocazione storica dell’Oratorio di Don Bosco possono scaturire considerazioni e interrogativi stimolanti per le nostre scelte pastorali.
*Quella di Don Bosco è un’esperienza che si colloca in un determinato contesto storico e vuol rispondere a precisi bisogni religiosi, educativi e sociali. Tuttavia, oltre agli aspetti contingenti, reca in sè, a livello di progetto e di metodo, ma anche di attività specifiche, fermenti di tale vitalità da permetterne un duttile adattamento ad ambienti e momenti storici diversi, con pari fecondità.
*Nel cammino storico della Chiesa, in particolare quella torinese, l’Oratorio ha costituito uno stimolante punto di riferimento per altre iniziative analoghe. Studiare l’esperienza oratoriana di Don Bosco significa, anche, approfondire un patrimonio comune e riscoprire l’impegno generoso e creativo delle generazioni che ci hanno preceduto.
*La globalità di proposte e la varietà di livelli in cui si articolava il progetto-Oratorio pone interrogativi sulla attuale frammentazione educativa e pastorale: cultura nella scuola, catechesi nella parrocchia, condivisione e partecipazione nelle associazioni, educazione nella famiglia, amicizia nel gruppetto, sport nella società sportiva…
*Anche la scelta dei destinatari privilegiati ci interpella. La categoria dei giovani ‘poveri e abbandonati’, infatti, è andata sociologicamente, psicologicamente e religiosamente evolvendosi, ma è rimasta in ogni tempo come problema e sfida per la Chiesa e la società.
*Infine, l’ampia e coordinata collaborazione, in gradazioni di responsabilità e di intensità diverse, che Don Bosco ha saputo attuare con sacerdoti, laici e giovani, sollecita una seria riflessione sulla frammentarietà di intesa e di sforzi che sembra caratterizzare la nostra realtà ecclesiale.